Grazie al credito di cui gode il presidente del Consiglio Mario Draghi ci sono state poche polemiche sulla riforma fiscale del governo. Meno di quelle che probabilmente si sarebbero scatenate se a idearla se fosse stato un esecutivo politico e di parte, non di larghe intese come ora.
Le poche critiche si sono concentrate sul fatto che i maggiori benefici dei tagli all’Irpef andranno a chi ha un reddito medio-alto, ovvero tra i 40 e i 70mila euro. La scelta del governo nasce dalla considerazione che i cittadini che fanno parte degli scaglioni più bassi hanno già goduto in passato del bonus degli 80 euro, diventati poi 100.
Alla radice delle polemiche vi è anche un dato strutturale: in Italia metà dei lavoratori dipendenti dichiara ai fini Irpef tra i 10 e i 30mila euro secondo il ministero delle Finanze. Guardando i numeri da un’altra prospettiva il 50% percepisce meno di 20mila euro. E solo il 7,5% si ritrova negli scaglioni tra 40 e 70mila euro. È il ritratto di un Paese povero e diseguale, con disuguaglianza e povertà che si alimentano a vicenda.
Le statistiche dell’Ocse consentono di confrontare i dati italiani con quelli europei per ogni livello di reddito. Così si scoprono risvolti interessanti: il decile più basso, quello composto dal 10% della popolazione con il reddito inferiore, dichiara ben il 19% in meno rispetto a quanto fanno i cittadini europei che si trovano nello stesso scaglione.
È moltissimo, considerando che ormai i nostri stipendi e le nostre entrate sono più bassi di quelli medi Ue, ma non così tanto.
Più i redditi salgono, più si riduce il divario rispetto al resto dell’Europa. Coloro che rientrano nel quarto e quinto decile, ovvero che sono a metà strada tra i più ricchi e i più poveri, risultano avere guadagni che sono tra il 3,66% e il 4,97% più bassi di quelli Ue dei medesimi segmenti.
E il 10% più benestante ha addirittura redditi più alti del 10% più ricco a livello europeo. Un andamento simile si ritrova nel Paese che più ci è simile a livello economico (e non solo) nel Continente, la Spagna.
Esattamente l’opposto accade in Germania e soprattutto in Francia. Dove il vantaggio, a livello di entrate, rispetto alla media Ue, è maggiore nei decili più bassi che in quelli più ricchi. Questi dati indicano che in Italia e Spagna chi è povero è ancora più povero e ha salari e guadagni più bassi di quelli che ci si potrebbe aspettare guardando solo le medie.
Non è una novità, nei Paesi con i redditi più bassi sono maggiori anche gli squilibri sociali, così come l’evasione e l’elusione, che hanno un grande peso nel generare tali statistiche. Però, questo avviene nonostante una progressività delle imposte che sulla carta è maggiore che altrove. Ovvero, in base ai dati Ocse, l’aliquota netta complessiva (considerando anche i contributi, le detrazioni e i cash benefit) pagata dal lavoratore è piuttosto bassa per chi guadagna la metà del salario medio, e sale in modo rilevante man mano che crescono le entrate, passando, per esempio per un single, dal 14,8% per i più poveri al 43% per i più ricchi.
In altre realtà come Francia, la Germania, il Regno Unito, gli Usa l’aumento è più ridotto, e per esempio in Germania si passa, sempre parlando di single, da un’aliquota netta media del 30,3% per chi guadagna meno al 43,7% per chi ha stipendi che sono 2,5 volte la media.
La maggiore crescita della tassazione in Italia è tra chi prende molto poco e chi prende il 25-50% più della media, mentre poi, tra i più ricchi, l’incremento dell’aliquota è più limitato, mentre altrove vi è una maggiore costanza. E si nota anche una notevole differenza in base alla presenza di un coniuge e di figli a carico.
Le tasse italiane appaiono più alte rispetto a quelle degli altri grandi Paesi se si ha una famiglia da mantenere. Spicca il caso tedesco: in Germania per chi prende il 50% più della media e ha un marito o una moglie e due bambini a carico l’aliquota netta è di 5 punti minore di quella per chi nel nostro Paese è nella stessa situazione. Se invece parlassimo di single sarebbe quella italiana a essere del 5% più bassa.
Questo vuol dire che nel nostro Paese vi è un incentivo maggiore a rimanere negli scaglioni più bassi di reddito, e si è meno invogliati ad avere un figlio o ad averne uno in più, soprattutto se si guadagna piuttosto bene. Anche per chi prende i salari più alti l’aliquota netta nel caso di prole composta da due o più rampolli e coniuge a carico non arriva al 35% nel Regno Unito, rimane sotto il 30% in Spagna e Francia, ed è solo del 21,1% negli Usa, mentre va oltre il 40% in Italia.
Non a caso la conseguenza è che in Italia le nascite diminuiscono sempre più e i redditi risultano schiacciati in modo innaturale verso il basso.
Eppure non possiamo certo dire che a Berlino o a Parigi, dove l’andamento delle aliquote è più dolce, non vi sia attenzione ai più poveri, non vi sia progressività o un welfare insufficiente, anzi.
Il primato italiano, almeno tra i Paesi Ocse più importanti, è ancora più evidente se parliamo del cuneo fiscale, che include anche le tasse e i contributi pagati dal datore di lavoro. Qui più che un andamento ripido dell’incremento delle aliquote è il loro livello a spiccare. Supera il 50% se si passa a salari maggiori della media, una soglia che non viene quasi mai raggiunta altrove se vi sono figli a carico.
Questa riforma fiscale cerca anche di ridurre quelle che gli economisti chiamano aliquote marginali effettive, ovvero la quota di un aumento del reddito che va in tasse. E che è particolarmente alta laddove, come in Italia, gli incrementi dei tributi sono abbastanza ripidi al crescere del reddito.
Si cerca di evitare il loro tipico effetto, il disincentivo al lavoro. È chiaro, nessun lavoratore rifiuterà un aumento o una promozione, ma è l’azienda che è scoraggiata dal proporli, così come è scoraggiata, per esempio, l’occupazione di un altro membro della famiglia.
E ovviamente vi è una spinta verso l’evasione, verso cui il nostro tessuto economico, fatto di piccole e micro aziende, è già predisposto. Evasione che è sia tra i motivi dell’altissima percentuale di lavoratori con redditi ufficialmente bassissimi sia tra gli effetti di un sistema come quello che abbiamo avuto finora.
Un sistema che come tanti altri è quindi un circolo vizioso, in cui vi è una pressione a pagare e denunciare poco, cosa che poi spinge lo Stato a perpetuare un regime fiscale che assecondi l’esistente.
Il governo Draghi ha l’innegabile merito di provare a portare il Paese verso gli standard internazionali, fatti di minori distorsioni e squilibri. Manca un capitolo, sviluppato solo in parte finora con l’assegno unico per i figli: una tassazione che, come altrove, non sia penalizzante per chi ha una prole, ma che anzi favorisca chi cerca di fermare l’inverno demografico.
La prossima strattonata della famigerata coperta corta dovrebbe riguardare proprio questo.