The Run-Up era ancora in onda quando il centralino del giornale cominciò a essere subissato da telefonate. I lettori erano infuriati per le grandi aspettative che il Times aveva riposto sulla vittoria di Hillary. Non era certo stato l’unico, ovviamente. Quasi tutti i media, tranne Fox, avevano fatto lo stesso.
Altri fedelissimi del Times erano furiosi perché pensavano che l’accanimento con cui il giornale aveva seguito lo scandalo delle e-mail avesse causato l’inaspettata sconfitta di Clinton. Alcuni caporedattori davano la colpa alle nuove iniziative rutilanti lanciate dal Times, in particolare a un nuovo grosso progetto dedicato al data journalism.
Quel maledetto contatore, apparentemente inchiodato sulla vittoria di Clinton, aveva contribuito a generare un’opinione diffusa rivelatasi poi dannosa. I dati utilizzati dal Times erano un amalgama di vari sondaggi, che avevano tutti sottostimato il voto dei bianchi nelle aree rurali. Anche Silver, che ora lavorava a ESPN, aveva previsto che Clinton avrebbe vinto, anche se con un margine più modesto. Dal Times, però, i lettori si aspettavano di più.
In seguito, Baquet avrebbe ammesso che era stato un errore collocare l’ago in una posizione così in vista sulla homepage, e che i suoi giornalisti non avevano passato abbastanza tempo a girare in lungo e in largo per gli Stati repubblicani. Con le tante scadenze per il sito, i blog e i video, e le ore trascorse a twittare, gli inviati non avevano più avuto il tempo di bussare alle porte degli elettori, come avevano fatto David Broder e Johnny Apple del Post.
I giornalisti che viaggiavano al seguito dei candidati avevano avuto difficoltà a uscire dalla bolla per parlare con gli elettori. Spesso Trump, con i suoi attacchi contro la stampa, aizzava a tal punto le folle dei suoi sostenitori che lasciare la bolla poteva rivelarsi pericoloso, soprattutto quando Trump segnava a presunti autori delle fake news. In una circostanza, Katy Tur della NBC ebbe bisogno della scorta della polizia per proteggersi da una folla inferocita.
All’indomani delle elezioni alcuni lettori annullarono l’abbonamento, tanto da allarmare Levien, che era stato promosso chief revenue officer (direttore delle entrate). Nel giro di pochi giorni il Times pubblicò una nota estremamente inusuale di Sulzberger e Baquet, che ammettevano, più o meno, di aver deluso i lettori e annunciavano che il giornale sarebbe tornato alla sua missione principale, quella di un’informazione corretta. «Dopo elezioni così anomale e imprevedibili ci si pone inevitabilmente una domanda: il carattere così anticonvenzionale di Donald Trump ha spinto il Times e altri organi di informazione a sottovalutare il sostegno di cui gode tra gli elettori?», si chiedevano.
Nel suo libro sui media, David Halberstam aveva definito il Times la voce suprema dell’establishment. Il Times era forse stato accecato dai suoi pregiudizi, tipici dell’establishment radicato nelle aree urbane e costiere degli Stati Uniti? «Mentre riflettiamo su queste elezioni epocali e sui mesi di reportage e sondaggi che le hanno precedute, l’obiettivo che ci vogliamo porre è quello di tornare alla missione fondamentale del nostro giornalismo», promettevano Sulzberger e Baquet. «Questo significa raccontare l’America e il mondo onestamente, senza timori né favoritismi, sforzandoci sempre di comprendere e presentare tutte le prospettive politiche e le esperienze di vita nelle storie che vi offriamo».
L’invocazione del celebre credo di Ochs, «senza timori né favoritismi», sottolineava l’importanza di quel messaggio, che Trump volle interpretare come parole di scusa nei suoi confronti. Le cose non stavano esattamente così. Sulzberger e Baquet ammettevano carenze nella copertura della campagna elettorale, ma l’aspetto più rilevante della loro nota era soprattutto l’impegno a raccontare l’intero Paese in modo più accurato e approfondito e, in particolare, a «costringere la classe politica a rendere conto del proprio operato, in modo inflessibile e imparziale».
La copertura offerta dal giornale continuò a essere oggetto di polemiche e contrasti per molto tempo dopo l’esito delle elezioni. La direzione del Times era stata talmente sicura della sconfitta di Trump che l’attenzione minuziosa e rigorosa dedicata a Clinton era invece stata risparmiata al candidato repubblicano, per quanto il Times avesse pubblicato inchieste sul suo impero immobiliare, sulle tasse non pagate e non rese note, sulle attività di lobbying legate alla Russia del responsabile della sua campagna, Paul Manafort, e su altri argomenti.
Non tutti nella redazione politica avevano sottovalutato Trump. Ashley Parker, una giornalista che aveva viaggiato al seguito della sua campagna, non fu presa alla sprovvista la notte delle elezioni. Aveva colto qualcosa di significativo nelle folle che accoglievano Trump come un semidio nelle ultime settimane della campagna. Ogni volta che inveiva contro la «corrotta Hillary», la folla rispondeva, sempre più forte: «In galera!». Il video di Access Hollywood, che secondo Ryan e altri caporedattori avrebbe significato la condanna di Trump, non sembrava fare presa negli Stati centrali. La riapertura dell’indagine sulle e-mail di Clinton da parte del direttore dell’FBI James Comey sembrò dare nuovo slancio allo staff di Trump; parallelamente, le fonti di Parker tra i democratici erano in possesso di sondaggi secondo i quali il vantaggio di Clinton era sceso di tre punti.
Il problema era che Parker aveva difficoltà a contattare la sua caporedattrice, l’indaffaratissima Ryan. Venne esclusa dal gruppo di lavoro responsabile della pianificazione della copertura e in generale non godeva di grande considerazione. Non molto tempo dopo le elezioni, colse al volo l’offerta di Marty Baron ed entrò a far parte del nuovo team di cronisti del Post che seguivano la Casa Bianca; diventò anche ospite fissa su MSNBC, la cui programmazione serale era interamente dedicata allo scandalo Trump.
da “Mercanti di verità. Il business delle notizie e la grande guerra dell’informazione”, di Jill Abramson (traduzione di Andrea Grechi), Sellerio, 2021, pagine 904, euro 24