Massimo pericolo Le parole di D’Alema sono un invito (implicito) a Draghi perché resti al governo

A parte il riflesso ideologico anni ’70, l’analisi dell’ex leader dei Democratici di sinistra coglie un punto, che i suoi alleati dovrebbero condividere: il lavoro del presidente del Consiglio non è esaurito e deve continuare almeno un anno. Anche perché per il Quirinale mancano i voti

Vincenzo Livieri - LaPresse

L’ “agenda D’Alema” una volta tanto potrebbe diventare quella del centrosinistra allargato. In una interessante intervista al manifesto l’ex leader dei Ds snocciola alcune cose ragionevolmente praticabili su Quirinale e dintorni.

La situazione è confusa: e un po’ a sorpresa dice di vedere «un unico disegno chiaro, quello della destra di Giorgia Meloni: eleggere il premier con buona pace del folle tentativo di Berlusconi di assaltare il Quirinale», mentre – e qui niente sorpresa – su cosa vuole il centrosinistra dice sconsolato: «Non è chiaro, non riesco a capirlo», e in effetti è ancora un mistero cosa davvero desideri Enrico Letta, il quale probabilmente si limiterà mettere il cappello su qualunque soluzione che non sia il Cavaliere, un’eventualità che terremoterebbe il sistema politico e il suo stesso partito.

Ma torniamo a D’Alema: coerente con un’impostazione un po’ anni Settanta, torna a ribadire che «è impressionante che il “draghismo”, cioè uno stato di eccezione, venga eletto a nuovo modello democratico», come se Mario Draghi fosse un Quisling messo lì da Goldman Sachs e non invece dal Parlamento italiano su impulso di Sergio Mattarella. Se non esattamente un usurpatore, almeno un estraneo alla normale lotta politica e dunque un’espressione di non-democrazia.

Può darsi che le ben note teorie di Giorgio Agamben sullo stato d’eccezione, filtrate attraverso la terribile realtà della pandemia, inducano a far coincidere la situazione presente con la figura di Mario Draghi, come se, anche a pandemia finita, egli fosse di per se stesso un politico autoritario o perlomeno a-democratico: tesi ardita di cui ovviamente non solo non v’è prova ma nemmeno il sospetto.

Fatto sta che per D’Alema, e per tutti i sostenitori di un “ritorno alla democrazia”, il premier attuale va più o meno abbattuto, come diceva la sinistra extraparlamentare dello Stato borghese «che si abbatte e non si cambia», e dunque è impensabile mandarlo (e per 7 anni!) al Quirinale. Però bisogna tenerselo un altro anno a palazzo Chigi – il líder Maximo ne è consapevole – perché ben difficilmente un leader diverso da SuperMario potrebbe mantenere unita una maggioranza così larga, che non presenta allo stato dei fatti reali alternative, tra l’altro scongiurando così le urne (ai dalemiani serve tempo per trovare casa dopo il riconosciuto «fallimento» di Articolo Uno). Un anno ancora di Draghi con un programma rinnovato, impegno sul Pnrr e con una legge elettorale proporzionale: detta così, è il contrario di quel lungo governo balneare che probabilmente si avrebbe senza Mario a palazzo Chigi: e anche questo ha un senso.

È probabile che il ragionamento dalemiano riscuota un notevole consenso nel Pd, più per la sua pars costruens che su quella ideologica ma non stiamo qui a sottilizzare, frenando e correggendo chi come Roberto Speranza non sembra escludere il trasloco di Draghi al Colle.

Se questo è vero, c’è da immaginare che il gruppo di sinistra-centro che guida il partito di Letta non sarà facilmente disposto a scrivere il nome di SuperMario sulla scheda. Il che, unito al terrore dei parlamentari di tutti i partiti di scivolare verso le urne una volta caduto il governo Draghi, e al fatto che né Conte né Salvini desiderano al Quirinale un uomo che preferisce avere rapporti con Di Maio e Giorgetti, tutto questo fa sorgere spontanea una domanda: chi glielo dice al presidente del Consiglio che non ha i numeri?

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