La belluina settimana che si è conclusa con la benvenuta pax mattarelliana lascia nel Movimento Cinque Stelle le scorie di una battaglia senza esclusione di colpi alla fine della quale resterà un solo “capo” in sella: o Giuseppe Conte o Luigi Di Maio.
La mina su cui è definitivamente saltata la coesistenza tra i due è stata la candidatura di Elisabetta Belloni, sbandierata in tv prima da Matteo Salvini e subito dopo da Conte e Beppe Grillo ma immediatamente stoppata con una nota da Di Maio, che non ha problemi a contestare il Fondatore tanto si sente forte, mentre Matteo Renzi scendeva in strada per protestare davanti alle telecamere sulla inopportunità istituzionale di una simile proposta.
«Vogliono portare la Belloni? Bene, io gli tolgo il voto di 60 parlamentari», ha fatto sapere in quei minuti il ministro degli Esteri che in realtà di Grandi elettorali ne aveva anche di più. Rottura definitiva. Occasione per lanciare un’Opa su un Movimento sbandato, dissanguato dalle fuoriuscite, in costante calo nei sondaggi: la “cura Conte” si è rivelata peggiore della malattia che avrebbe dovuto curare.
L’avvocato ha capito l’antifona. Non si sottrae al «chiarimento», dolce parola che ammanta di luce le spade sguainate poi utilizzata anche dal suo antagonista. Il futuro del M5s non è in una scissione. La posta in palio è la leadership del partito. Il ministro degli Esteri se lo vuole prendere o riprendere (era già il “capo politico”) e stavolta senza fare prigionieri. Ma per costruire cosa?
Mentre il disegno di Conte è sempre avvolto nella nebbia, e lascia al massimo intravedere un futuro da cespuglio ai piedi del Pd, Di Maio ha le idee più chiare anche se forse velleitarie: vuole diventare il capo di un partito di centro, ago della bilancia dopo le Politiche tra un Pd giudicato in ripresa e una destra sovranista a trazione meloniana, un partito che dopo le elezioni possa allearsi con il primo o con la seconda in base a un realismo spregiudicato.
Di Maio, senza saperlo, vorrebbe imitare il Ghino di Tacco degli anni Ottanta ma in versione molto più casereccia (all’epoca si parlava comunque di alleanze in un quadro strutturato sui grandi partiti di massa), utilizzando un’ars diplomatica che egli è convinto di aver assimilato alla Farnesina – incarico che gli piace moltissimo – alla stregua del Mazzarino, il potente uomo di Stato nella Francia seicentesca tanto abile da ottenere il cappello cardinalizio senza essere prete…
Luigi Di Maio crede molto in se stesso, e i suoi fedelissimi lo gasano innalzandolo a salvatore del Movimento: da adesso chi non è con lui è contro di lui, perché quando scorre il sangue ciascuno deve schierarsi. Conte, uscito malconcio dalla vicenda quirinalizia, lo ha capito e sta già caricando le munizioni. Il fido Rocco Casalino è stato incaricato di predisporre le armi, a partire dai social: ieri su Twitter hanno fatto entrare in tendenza l’hashtag #DimaioOut.
Il ministro degli Esteri ha dalla sua parte Beppe Grillo, che non ha mai amato l’avvocato (ricordate quel «non ha visione né capacità manageriali»?) e la settimana scorsa ha dovuto richiamarlo per l’improvviso ritorno di fiamma gialloverde sotto forma di appoggio alla Casellati. È un Conte debole ma che ha costruito un suo sistema di potere interno al Movimento. Per questo la lotta sarà cruenta. Premessa per un accelerazione della malattia. O al massimo per una nuova avventura politica che rischia di far fare a Luigi Di Maio la fine di Arlecchino che le prendeva da entrambi i suoi padroni.