Ci accorgiamo di loro saltuariamente, in occasione di qualche crisi aziendale o di delocalizzazioni che provocano la chiusura di aziende manifatturiere sul territorio, oppure quando si verificano incidenti sul lavoro, che riguardino un 18enne in stage o operai un po’ più anziani.
Il dibattito mediatico sul mondo del lavoro, in realtà, sembra incentrato più su altro, soprattutto sulle pene dei laureati che non riescono ad agguantare quei livelli di remunerazione o di carriera che i propri omologhi all’estero raggiungono senza troppa fatica.
Eppure coloro che non arrivano alla laurea, che lavorino in fabbrica o nei servizi, sono decisamente più numerosi nel nostro Paese e si trovano in condizioni peggiori.
Le ragioni che alcuni anni fa hanno portato alla creazione dell’alternanza scuola-lavoro, la soluzione imposta agli adolescenti affinché acquisiscano più competenze e dimestichezza con il mondo produttivo già in età scolastica (e rivolta soprattutto a coloro che non metteranno mai piede in un’università) rimangono più che valide anche oggi.
I dati parlano chiaro: il tasso di occupazione dei diplomati con il tempo ha avuto un trend decisamente peggiore di quello dei laureati. Nel periodo della crisi finanziaria e dell’euro è sceso del 4,5%, dal 74,3% del 2008 al 69,8% del 2014.
La principale differenza è che, mentre nel caso di chi si è fermato alle scuole superiori non è mai tornato ai livelli precedenti alla Grande Recessione, fermandosi al 71,4% del 2019 e calando al 70,5% con la pandemia, al contrario, per chi ha completato l’università nel 2020, era lo stesso che nel 2008.
Rispetto ad allora, infatti, il gap tra i due gruppi si è allargato non poco.
Anzi, è diminuito il vantaggio che i diplomati vantavano, in termini di presenza nel mondo del lavoro, rispetto a quanti erano arrivati al massimo alla terza media.
Inutile aggiungere che ad essersi allargata è anche la differenza con gli altri Paesi europei. Il confronto è piuttosto impressionante in particolare per quanto riguarda la Germania: nel 2008 il tasso d’occupazione di chi si era fermato al diploma era di appena un punto superiore a quello di chi aveva compiuto gli stessi studi in Italia, mentre nel 2020 è diventato di quasi 12 punti.
La Germania, assieme al Regno Unito, rappresenta anche una felice eccezione al trend che vede crescere mediamente il gap fra la quota di lavoratori presente tra i diplomati e quella che si riscontra tra i laureati.
Che c’entri qualcosa il collaudato modello di alternanza scuola-lavoro così radicato nel sistema educativo tedesco?
In realtà i numeri più significativi riguardano coloro che stanno cominciando una carriera, ovvero i 30enni, i quali hanno terminato il periodo di gavetta e di incertezza che da diverso tempo caratterizza la situazione lavorativa dei 20enni.
Ebbene, il panorama per i diplomati italiani di quest’età appare ancora ancora più desolante: in 12 anni il loro tasso d’occupazione è sceso del 10,7%, più di quanto sia accaduto negli altri principali Paesi europei. A differenza di quanto accade tra i 25-64enni, in questo caso persino la Spagna è più virtuosa di noi.
Anche qui il trend contrasta con quello, molto meno tragico, che ha interessato la questione delle possibilità occupazionali dei laureati.
La diminuzione della quota di 30enni diplomati e con un lavoro, crisi dopo crisi, ha interessato sia gli uomini che le donne. Tra queste ultime è enorme la differenza rispetto alle coetanee che hanno un titolo universitario, ed è evidente quanto conti l’altissimo tasso di inattività che colpisce chi tra loro non prosegue gli studi dopo la scuola. Tra gli uomini è significativo come 14 anni fa fosse addirittura più facile trovare un lavoro per i diplomati piuttosto che per i laureati e come nel tempo vi sia stata una netta inversione.
Probabilmente non stupisce il fatto che i più penalizzati sono stati i lavoratori meridionali senza titolo di laurea. La differenza tra il loro tasso di occupazione e quello di chi vive al Nord, pur con gli stessi studi, si è allargata dal 18% al 21,4%.
Ancora maggiore è stato il peggioramento della situazione per gli stranieri, se pensiamo che 14 anni fa i diplomati provenienti dall’estero lavoravano più di quelli italiani, mentre nel 2020 è stato l’opposto.
L’Italia, del resto, si attesta da sempre tra i Paesi in cui l’abbandono scolastico è più rilevante. Non si tratta solo di un problema culturale o legale o del mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. È anche e soprattutto un problema economico.
Tra i giovanissimi di età compresa tra i 18 e i 24 anni, infatti, coloro che lavorano dopo avere lasciato i banchi prima del diploma sono solo un terzo. Erano più della metà nel 2008. Nel Mezzogiorno si scende al 23,3%.
Questi dati in generale non sono una novità, ma l’ulteriore peggioramento dettato dalla crisi pandemica li riporta in primo piano.
Soprattutto ci pongono di fronte a un’evidenza: non possiamo consentire che una quota enorme di italiani continui a peggiorare le proprie condizioni economiche e lavorative.
Nonostante l’incremento della porzione di giovani che raggiungono la laurea sia sacrosanto, dato anche il fatto che da questo punto di vista siamo il fanalino di coda d’Europa, abbiamo però il dovere di occuparci anche dei tantissimi che all’università non ci andranno mai, ad esempio coloro che frequentano gli istituti professionali e tecnici, ingiustamente considerati scuole di serie B.
Questi ragazzi usciranno dal sistema scolastico a 18-19 anni. Fornire competenze pratiche durante gli studi che consentano un ingresso facilitato nel mondo del lavoro non è tanto un favore a Confindustria, alle imprese o ai “padroni”, ma innanzitutto a loro.