Ecco perché tocca a Draghi. Sul cui nome il presidente rivolge un appello «a tutte le forze politiche», affinché gli conferiscano piena fiducia. Appello sillabato con un’enfasi per lui inusuale, perché anche se il nome dell’ex capo della Bce è stato canonizzato quasi unanimemente negli ultimi tempi, non è detto che, alla prova dei fatti, il sostegno del Parlamento sia scontato. Otterrà subito un incarico pieno.
Il capo dello Stato ne parla con Draghi, quando si presenta da lui. Tra loro c’è stima, rispetto e confidenza, perciò Mattarella non gli detta condizioni; si limita a dargli un consiglio, prima che si metta all’opera, formulato più o meno così: per il programma e i ministri te la devi vedere tu, in libertà. Prenditi il tempo che ti serve. Ma trova la maniera di far capire che il tuo governo non prescinde dalla politica…
È un’indicazione utile a segnare una differenza con altri esecutivi tecnici o istituzionali del passato anche recente, che furono spesso percepiti come troppo estranei alla sfera parlamentare. Imposti dall’alto e, in quanto tali, dopo un po’ rinnegabili da chi li sosteneva. Delle scelte magari in quel dato momento inevitabili, ma che si traducevano in un commissariamento della politica.
L’ex presidente della Banca centrale europea accoglie la raccomandazione e la trasferisce a suo modo nel breve discorso davanti alle telecamere, sistemate nella loggia alla Vetrata: «Con grande rispetto mi rivolgerò al Parlamento, espressione della sovranità popolare… Sono fiducioso che dal confronto con i partiti, con i gruppi parlamentari e le forze sociali emerga unità e capacità di dare risposte». Due frasi rassicuranti, di condiscendenza, si sarebbe detto un tempo. Indispensabili a Draghi, per spianare la strada e trovare sostegno al suo esecutivo, che inevitabilmente avrà il marchio del Quirinale, essendo stato immaginato e promosso lassù, senza neppure una consultazione.
Molti fanno raffronti tra questo governo e quello di Mario Monti, del 2011, ma tra i due ci sono differenze notevoli. Per esempio, il governo Monti era stato «progettato» in anticipo, per rianimare un Palazzo Chigi in panne e arginare la rincorsa dello spread schizzato a 560; mentre il governo Draghi è «necessitato» dal nichilismo dei partiti, che non ha lasciato margini di manovra al capo dello Stato (e non era facile, per lui, bypassare il livello politico). E poi, quando Napolitano affidò il mandato a Monti,poteva già contare su una maggioranza di centrodestra, destinata peraltro ad allargarsi. In questo caso, invece, Mattarella ha dovuto decidere tutto in fretta, favorendo certo la propria soluzione, ma sapendo che il punto di caduta è ignoto e che Draghi dovrà conquistarsi la propria maggioranza in aula. Non sono questioni secondarie, per il presidente, dove il tentativo dell’ex banchiere è seguito con apprensione, anche perché è senza alternative.
In quei momenti lo preoccupa l’alta tensione dei 5 Stelle, fra i quali serpeggiano idee bizzarre e pericolose, come quella di scatenare una crociata contro Draghi per farlo fallire, nella speranza che possa esser rimesso in pista l’ormai formalmente dimesso Conte: ipotesi in ogni senso irreale, per Mattarella, quella di un governo di minoranza per fare fronte alle emergenze che ci pressano. Lo preoccupa anche che, attraverso una certa propaganda interessata, si faccia passare quello di Draghi come un governo dell’austerità e dei sacrifici, sull’esempio di qualche suo predecessore, quando stavolta ci sono semmai soprattutto denari sonanti da spendere (il «debito buono»). E lo preoccupa, infine, che alcuni giochino con il calendario, ipotizzando già un termine vicino per l’esecutivo «del presidente» e fantasticando su improbabili vantaggi di un rapido ritorno alle urne.
Alla fine, è il premier a fare chiarezza mettendosi subito al lavoro con una maggioranza così larga da annacquare, provvisoriamente almeno, le differenze e le incompatibilità partitiche (anche se ciascuno vorrà piantare su ogni provvedimento la propria bandierina). E, dopo aver insediato un gabinetto misto di ministri politici e tecnici, decidendo secondo un criterio più induttivo che deduttivo. Ciò significa costruire una soluzione per volta rispetto a quanto gli viene chiesto dai partiti, ma sempre con il timone orientato sul proprio progetto.
Mi torna alla memoria, delle numerose interviste che ho fatto a Mattarella, quella su Ciampi nel giorno della sua scomparsa, perché delinea rispecchiamenti precisi tra i due ex governatori di Bankitalia divenuti premier. Di Ciampi, il presidente ammirava «la chiarezza delle analisi e la serenità nel considerare le proposte che gli venivano avanzate… la pacatezza e la capacità persuasiva con cui conduceva a condividere le sue ragioni… la misura, l’equilibrio, la rettitudine, lo spirito di servizio». Doti alle quali univa un grande «rispetto per la cultura», mentre «la dirigenza politica del paese era travolta dalla delegittimazione».
La posta in palio con Draghi, in cui vede forse un alter ego di Ciampi, è più o meno la stessa di quel 1993. Ma con una difficoltà nuova, che il capo dello Stato ha ben presente. La politica dovrebbe avere una capacità di anticipazione e disegno del futuro, mentre questo non accade da tempo, il che spiega perché tanto spesso si sia navigato bordeggiando. Con Draghi tutto si rovescia: i politici si prendono il compito di gestire l’esistente, mentre i tecnici – i «Draghi boys» cooptati nei dicasteri cruciali – elaborano un programma per il futuro, e ciò dovrebbe essere senza interessi politici.
L’anomalia è determinata dalla fine del nesso tra politica e cultura che ha caratterizzato il Novecento e che oggi, nella povertà di ideali e valori dei partiti, contribuisce alla crisi del sistema.
Non è un’enfatizzazione dire che Mattarella ha fatto un miracolo e salvato l’Italia, nominando Draghi. La presidenza della Repubblica, si sa, è un ufficio monocratico il cui titolare cerca sempre dei precedenti ai quali rifarsi, quando ha di fronte una crisi particolarmente grave. Precedenti che devono essere riportati al contesto presente, per verificare se ve ne sia qualcuno di utile. Stavolta Mattarella non ne aveva, per cui lo ha soccorso la sua cultura della mediazione e la fiducia nel diritto come strumento per dipanare la complessità. Il problema era per lui quello di guadagnare tempo e dare alla crisi una risposta istituzionale. Che ha trovato in Mario Draghi.
Senza di lui c’era il rischio che i fondi della Ue non arrivassero e sarebbe stata una catastrofe per un paese nel quale la politica, che insegue i sondaggi e non si cura di governare, è ormai scivolata nell’antagonismo televisivo e internettista, senza molte dee ma con tanti insulti o like. Siamo all’opposto della «teoria discorsiva della politica» proposta dal filosofo tedesco Jürgen Habermas per far crescere un’opinione pubblica libera da condizionamenti e per ciò stesso critica.
Ma, a proposito della scelta di Draghi, va segnalata un’altra componente storico-politica, che va inserita in quel processo di europeizzazione dell’Italia iniziato già nel gennaio 1947 con il viaggio di Alcide De Gasperi in America, a Cleveland, quando fu disegnato il futuro del nostro paese traducendo nella realtà pratica la sua appartenenza all’Occidente stabilita a Yalta. E quindi al suo simbolo più evidente: l’Europa. Tutto ciò che è accaduto da allora ha avuto questo segno, il progressivo accorpamento della politica italiana nell’universo delle politiche dell’Unione. Fino al primo governo Prodi, che facendoci rientrare nei parametri di Maastricht e consentendoci l’adesione all’euro ci ha posto fra i paesi «di prima scelta». Era la chiusura del cerchio aperto da De Gasperi.
Poi c’è stato un lungo periodo oscuro, incerto, vagolante, che tra alti e bassi ha cadenzato la nostra caduta, fino all’antieuropeismo, all’euroscetticismo, all’euroignoranza di sovranisti e populisti. È stato il punto più basso. Ed è in questa situazione che Mattarella decide per Draghi, cioè riallaccia il filo perduto del discorso degasperiano affidando il governo all’uomo che ha saputo intrecciare, in anni di lavoro comune, i più solidi legami con i maggiori leader europei. Per dire agli italiani che la salvezza sta lì, che bisogna «scalare le Alpi», come predicava Ugo La Malfa, che «non c’è sovranità nella solitudine», come ha ripetuto lo stesso ex banchiere centrale.
C’è una fotografia emblematica, a proposito delle Alpi scalate da Mattarella. Lo scatto del 12 luglio 2020, in cui si vedono il presidente italiano e quello sloveno Borut Pahor, mano nella mano, davanti alla foiba di Basovizza e poi al Narodni dom di Trieste, la casa della cultura slava incendiata dai fascisti: è la chiusura di un lunghissimo contenzioso che è stato storico, ideologico e perfino etnico.
da “Capi senza Stato. I presidenti della grande crisi italiana”, di Marzio Breda, Marsilio, 2022, pagine 224, euro 18