Vestire un mondo precarioLa moda del 2022 a metà tra sostenibilità e incertezza

Il settore sta cambiando. Da un lato la pandemia scardina tradizioni consolidate, dall’altro la digitalizzazione rivoluziona i meccanismi della distribuzione. E se per i produttori diventa urgente il tema delle responsabilità ambientali, le creazioni dei designer saranno influenzate dall’instabilità generale

AP Photo/Luca Bruno, File

Tra meno di una settimana riprende il ciclo di annuale di presentazioni moda. A partire dall’11 gennaio prima a Firenze con il Pitti Immagine Uomo poi a Milano con la Fashion week.

Sono queste le manifestazioni dove in Italia tradizionalmente vengono proposte le collezioni maschili, in questo caso per la stagione autunno-inverno 2022-3. Parlare però di presentazioni “tradizionali” è una convenzione che ha ormai poco a che vedere con quel che sta accadendo nel fashion, dove è in atto una forte evoluzione e dove, come in ogni altro settore a dominare è l’incertezza.

La prima disdetta è arrivata da Giorgio Armani. La variante Delta aveva fermato la sfilata nel gennaio dello scorso anno, Omicron gli ha consigliato di rinunciare a quella di questo 2022. A seguire, la disdetta di Brunello Cucinelli, sino a ieri uno degli stakeholder del Pitti Immagine.

Molte delle consuetudini che si erano consolidate nei decenni passati sono state scardinate da una pandemia che sembra non voler concludersi mai, mentre la digitalizzazione di intere fasce generazionali ha trasformato alle radici la distribuzione dei prodotti moda, quanto alle stagioni… di quale continente i tratta (visto che la moda è divenuta globale), e rispetto a quali mutamenti climatici in corso?

Per provare ad orientarsi in questa nuova realtà sono almeno tre gli elementi da considerare.

Il primo. Una novità emersa con forza nel 2021 è stata la presa in carico (ineludibile e finalmente dichiarata) delle responsabilità legate alla forte impronta ecologica delle produzioni del tessile-abbigliamento.

Il problema è divenuto centrale nelle considerazioni che orientano le scelte delle imprese che operano in questo settore. Un segnale positivo in questa direzione arriva anche dalle accademie di moda di ogni parte del mondo: master specifici su questo argomento stanno insegnando a chi le frequenta a mettere la sostenibilità tra le componenti essenziali per chi progetterà la moda del futuro.

Verso la fine dello scorso anno, tutti gli occhi sono stati puntati sulla Cop26 tenutasi a Glasgow: qui leader politici di ogni parte del mondo hanno condannato l’utilizzo senza limiti di combustibili fossili, sottolineandone i collegamenti con il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità.

Passati alle risoluzioni, però, sono stati fissati obiettivi deludenti e l’impegno del settore moda nel suo complesso non è stato convincente circa il finanziamento necessario per la riconversione energetica dei propri supplier, responsabili di gran arte dell’inquinamento prodotto nel tessile.

Decarbonizzare la filiera della moda è una sfida complicata, ma il livello di difficoltà non rende il bisogno meno urgente.

The elephant in the room? È sempre stato presente, ma tutti hanno fatto finta di non vederlo. E si capisce: non è facile ammettere che il modello di business attuale (il consumo rapido e infinito), vista la pericolosa situazione in cui versa il pianeta si rivela un suicidio.

Perché nonostante le dichiarazioni di buona volontà a favore della sostenibilità, nel tessile abbigliamento le emissioni nel 2021 sono aumentate, la circolarità è rimasta sfuggente, i tessuti di nuova generazione pochissimo impiegati e sono innumerevoli i lavoratori impiegati in queste produzioni (tutte o quasi dislocate nel sud est asiatico) che se la passano malissimo.

Altro aspetto emerso con forza lo scorso anno e destinato a crescere in questo 2022 è la frequentazione del fashion nelle praterie del Metaverso. I brand ne utilizzeranno le opportunità di vendita (che si tratti di capi virtuali o fisici poco importa) per rimanere in contatto con il pubblico costituito da Gen Z + Millennial che nel 2030 costituirà il 60% del mercato mondiale questa attività è viene reputata una scelta obbligata.

C’è ancora un ultimo aspetto che va considerato: il più insidioso e insieme il più affascinante. Le vite di noi tutti, ormai assuefatti a proteggerci indossando in qualsiasi momento qualsiasi tipo di Ffp2, sotto molti spetti sono diventate più precarie. Sono precari molti lavori eufemisticamente definiti smart, precarie le condizioni di studio di decine di migliaia di studenti in Dad, precarie le indicazioni sulle possibilità di spostamento tra uno Stato e l’altro, quando butta male pure verso una città o un paese della propria nazione.

Che cosa sta accadendo? Una recente pellicola – “Don’t look up!” di Adam McKay – illustra bene la tragicommedia che stiamo vivendo. Racconta della parabola di un meteorite che rischia a disintegrare il pianeta e di come decisori politici come il Presidente degli Stati Uniti (interpretato da una spassosa Meryl Streep) faccia di tutto per non ascoltare indifesi astrologi (Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence) portando alla catastrofe (sempre con il sorriso sulle labbra) l’intero genere umano.

Non basta. Uno dei libri più intriganti del momento porta questo bizzarro titolo: “Il fungo alla fine del mondo”. Ma è il sottotitolo ad essere rivelatore: “La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo”.

Anna Lowenhaupt Tsing, l’autrice, non è una scrittrice di fantascienza: ma è docente di antropologia presso la University di California e la Aarhus University in Danimarca. Con tocco leggero utilizza la metafora del fungo matsutake – prelibatezza della cucina giapponese – per prepararci a scenari di vita futuri possibili oltre il disastro ambientale verso cui stiamo correndo.

Ma di precarietà già parlava il film “Nomadland” di Chloé Zhao, pellicola che racconta la vicenda di un gruppo di uomini e donne americani, non più giovani, tutto sommato morigerati, mediamente istruiti che decidono di fare della precarietà in cui sono precipitati una scelta di vita consapevole; qualcosa nel meccanismo dei consumi certi e infiniti per loro sembra essersi definitivamente inceppato. In questo film il confine tra fiction e documentario appare a prima vista labile. Risultato? Leone d’Oro al Festival di Venezia, a seguire tre premi Oscar come migliore regia, miglior film la migliore attrice protagonista (la straordinaria Frances McDormand di Fargo).

La moda arriva sempre un po’ dopo le migliori espressioni artistiche del suo tempo. Chi la progetta è però necessariamente attento a quanto accade intorno a sé: per la strada come nei salotti intellettuali.

Rappresenteranno i designer il quel che stiamo vivendo? Certo che sì: è già accaduto in passato (fenomeni come la psichedelia o il punk hanno accompagnato drammatiche traiettorie sociali) e accadrà di nuovo, pena la sua assoluta irrilevanza simbolica – cosa che la moda non può concedersi.

I migliori tra i creativi che progettano abbigliamento non pensano esclusivamente in termini di rose e fiori… anche se questo racconto un po’ scemo viene immancabilmente propinato dagli operatori più sprovveduti dei media: blogger, influencer, instagrammer o tiktoker che dir si voglia.

Benvenuto dunque al nuovo ciclo di presentazioni. Di un po’ di evasione, musica, colore e bellezza abbiamo tutti bisogno. Ma attenzione: le generazioni che si stanno affacciando alla loro nuova vita adulta possono apparire indifferenti solo ai meno attenti. Sono in realtà molto più informate di chi li ha messi al mondo… e non sono affatto stupide.

Meno di un mese fa il Parlamento europeo ha confermato la decisione di organizzare per il 2022 l’Anno europeo della gioventù attivando in tutti i Paesi membri attività e iniziative a loro dedicate.

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