Hanno fatto il botto negli ultimi mesi, sovrastano la piramide degli articoli più desiderati dalle celebrities di tutto il mondo e in termini energetici consumano quanto interi Stati.
Sono gli Nft – Non-Fungible Token – ovvero unità di dati univoche utilizzate per certificare oggetti digitali. Opere d’arte, musica, meme, foto, oggetti virtuali di ogni tipo: attraverso la tecnologia blockchain, queste stringhe non corruttibili di dati vengono create per rappresentare un qualsiasi oggetto digitale e il suo autore.
A oggi girano soprattutto sulla blockchain di Ethereum, la criptovaluta più florida per questo nuovo tipo di mercato. All’interno di questa struttura, OpenSea rappresenta il più grande marketplace di Nft del mondo con i suoi oltre 80 milioni prodotti digitali. Gli oggetti più in voga che vengono venduti e comprati su questa piattaforma sono opere d’arte di ultima generazione. Ma dimentichiamoci Monet o Caravaggio. Qui si commerciano quadri virtuali i cui soggetti sono scimmie annoiate (Bored Ape Yacht Club), teschi pixellati (CryptoSkulls) e orsi con gli occhiali (PhantaBear). I loro acquirenti sono grandi sportivi, uomini dello spettacolo e i broker del nuovo mondo. E dopo l’arte, l’altro mercato in via di sviluppo, strutturato su questi asset digitali, è quello immobiliare dei metaverso. Che si parli di Decentraland, The Sandbox o Meta, gli Nft rappresentano il sistema attraverso il quale la nuova finanza globale sta mettendo radici.
Gli Nft girano sulla stessa tecnologia, quella della blockchain, utilizzata per estrarre criptovalute (come bitcoin). Spiegheremo brevemente come funziona. Ma prima, è bene considerare questo dato: il processo che porta alla creazione di nuovi bitcoin da spendere o da scambiare consuma circa 138 terawattora di elettricità all’anno. Più di quella utilizzata dalla Svezia, per intenderci, una nazione di oltre 10 milioni di abitanti (secondo uno studio sviluppato dall’Università di Cambridge).
Come detto, quando si parla di Nft ci si riferisce a criptoasset, rappresentazioni digitali di valore che attraverso la tecnologia blockchain garantiscono l’unicità di un determinato oggetto e della sua proprietà. È proprio questa garanzia di unicità a renderli desiderabili e, allo stesso tempo, a pretendere un enorme sforzo energetico.
Per dirla in modo profano, la blockchain si presenta come un sistema di blocchi virtuali, dentro ai quali è possibile depositare un certo numero di transazioni, cioè di informazioni e di dati (come gli Nft). Questi contenuti vengono verificati e “sigillati” attraverso un sistema di validazione che sfrutta una funzione altamente complessa da risolvere, detta funzione crittografica di hash.
A motivo della sua complessità, l’hash necessita, per essere risolta, di un’enorme potenza di calcolo. Se fino al 2009 era sufficiente il proprio computer domestico e qualche secondo di tempo per partecipare al sistema di validazione della blockchain, detto mining (e dopo vedremo il perché), oggi sono necessarie stanze se non edifici interi composti da server in grado di garantire la potenza di calcolo necessaria a risolvere l’operazione richiesta dal protocollo.
Dicevamo che il mining, l’operazione di validazione di ogni blocco, è affidato a super computer di calcolo i quali, ogni circa dieci minuti, sono chiamati a risolvere l’hash del nuovo blocco della catena. Chi mette a disposizione la propria strumentazione per “minare” una determinata blockchain viene ricompensato con le relative criptovalute. Sono i cosiddetti miner, i minatori, a far progredire la blockchain offrendo alla rete virtuale energia elettrica e strumentazioni necessarie. E se oggi estrarre un solo bitcoin costa, in termini di consumo energetico, oltre i 12 mila dollari è bene tenere presente che il suo valore supera i 50 mila.
Questo sistema di estrazione e validazione, però, vale principalmente per i giganti della blockchain, come bitcoin o Ethereum, i quali utilizzano un protocollo di verifica detto “Proof of Work” (PoW). Ogni volta che un nuovo blocco viene aggiunto alla catena, viene infatti chiamata a raccolta l’intera rete di server “minatori” per validarne il contenuto. Il consenso è quindi deciso sulla base della quantità di lavoro effettuato.
Ma esiste un altro protocollo di verifica, molto meno energivoro e quindi sempre più richiesto, che si chiama “Proof of Stake” (PoS). Criptovalute come Cardano, Solana o Algorand girano su questi sistemi e, per questo motivo, sono visti con maggior favore dal mondo ecologista. In questo caso, la validazione di ogni nuovo blocco è legata all’investimento sulle criptovalute. Gli utenti di quella specifica rete accedono al processo di verifica soltanto a fronte della messa a disposizione di un certo ammontare di criptovalute che viene congelato come garanzia. Se un minatore detiene una quota pari al 3% del totale di quella criptovaluta, significa che potrà validare soltanto il 3% dei blocchi di quella blockchain.
Ecco perché il protocollo PoS sta diventando l’ultima frontiera dell’intero mercato minerario virtuale. Sia perché abbatte notevolmente la spesa energetica necessaria, sia perché soddisfa il desiderio di quanti intendono immettersi nel mercato digitale mantenendo una coscienza ecologica. Ed è proprio per questo motivo che persino Ethereum sta lavorando a pieno regime per sviluppare un nuovo aggiornamento, Casper, in grado di convertire il protocollo PoW inizialmente in una forma ibrida in cui, ogni circa 100 blocchi, venga utilizzato il sistema PoS per la validazione, come una sorta di “checkpoint”. Questo nuovo sistema attenuerebbe inoltre il problema della democraticità tra miners all’interno del protocollo PoS, nel quale chi possiede più criptovaluta è naturalmente più incentivato a “minare” rispetto a chi ne possiede meno. Ma la transizione del protocollo Ethereum è ancora in fase di sviluppo.
Il mercato è in piena trasformazione e sono sempre di più gli investitori che puntano a rendere eco-sostenibile il sistema di criptoasset. In Canada, ad esempio, la società CurrencyWorks ha sviluppato un sistema auto-sostenibile grazie al quale i rifiuti petroliferi vengono trasformati in energia ecologica per alimentare il mining all’interno della blockchain. Non a caso, rientra tra i distributori del film “Zero Contact”, interpretato da Anthony Hopkins e rilasciato sotto forma di Nft – a impatto zero – sulla piattaforma Vuele.
Tra i promotori del mining a zero emissioni, c’è anche un’azienda chiamata StarkWare. Come molte altre, ha sviluppato per le energivore transazioni Ethereum un protocollo che permette di impacchettare un maggior numero di informazioni in uno stesso blocco riducendo fino a 200mila volte, secondo i suoi calcoli, il consumo di energia necessaria per il mining.
Stando a uno studio dell’Università di Cambridge (3rd Global Cryptoasset Benchmarking Study) si stima che, in media, il 39% del mining sviluppato sul protocollo Proof of Work sia alimentato da fonti rinnovabili, principalmente da energia idroelettrica. Come detto, è tutto in divenire. Ma i segnali per la costruzione di un sistema più attento alla sostenibilità ambientale sono evidenti anche all’interno del mondo delle criptovalute.