Il morto fa presa sul vivoPerché il ritorno di D’Alema mira ad affondare ogni speranza riformista

Il suo attacco alla stagione renziana, lanciato al rientro nel Partito Democratico, rivela il progetto, condiviso da altri membri del gruppo dirigente, di rifare l’ennesima reincarnazione comunista, di riprendere i rapporti con Giuseppe Conte e di mettere da parte Mario Draghi

Vincenzo Livieri - LaPresse 09-12-2019

«Accanto ai mali d’oggi incombe tutta una serie di mali ereditari, che derivano dal vegetare di metodi di produzione vecchi e sorpassati, con i loro conseguenti rapporti sociali e politici anacronistici. Noi soffriamo non solo per i viventi, ma anche per i morti. Le mort saisit le vif! (Il morto fa presa sul vivo!)».

Leggendo l’intervista a D’Alema in cui lanciava la sua “opa” sul Pd in nome della tradizione veterocomunista mi è venuta in mente questa celeberrima espressione di Karl Marx contenuta nella prefazione al primo volume de Il Capitale.

Attraverso questa espressione, presa a prestito dal diritto ereditario franco-tedesco, si riferiva al fatto che in Germania, come in altri Paesi europei arrivati tardi all’industrializzazione, pesavano sulle condizioni sociali della classe operaia non solo lo sfruttamento del capitalismo moderno, ma anche l’eredità di rapporti sociali vecchi e morenti che aggravavano la soggezione del lavoro ai ceti proprietari.

Una chiesa senza fedeli
La metafora può essere usata per descrivere il tentativo di un piccolo gruppo di ex comunisti imbalsamati nell’eredità del Pci che ha costituito il maggior ostacolo affinché la sinistra italiana entrasse effettivamente in quella europea socialdemocratica e liberalprogressista, di riprendere il controllo del partito da cui erano usciti perché “malato” di renzismo, in nome del primato di quella tradizione e di quella eredità.

Il fiasco politico dell’operazione Art.1 e poi Leu certifica che si tratta di morti, cioè di un ceto politico la cui tracotante convinzione di appartenere alla schiera dei “migliori” e di essere depositario di una “verità” che va oltre le inevitabili lezioni della storia, contrasta con l’assenza di consenso tra gli italiani.

Nonostante i talk show, che li intervistano un giorno sì e l’altro pure, nonostante l’appoggio interessato di pezzi dell’establishment, l’operazione politica di D’Alema e Bersani, nata dalla convinzione che vi fosse una prateria elettorale a sinistra, si è rivelata catastrofica: non ha raccolto consenso e soprattutto non ha niente da dire sul futuro del paese. È una chiesa senza fedeli, i cui sacerdoti sono alla ricerca di una casa dove poter continuare a pontificare (e magari guadagnare ancora qualche seggio parlamentare).

Ma sono davvero morti?
Ma se così fosse sarebbe una operazione priva di interesse, patetica e irrilevante: sarebbe un rantolo velleitario che sparirebbe dalla cronaca molto rapidamente. Purtroppo, però, non è così, perché “il vivo” a cui quel morto cerca disperatamente di abbarbicarsi è molto meno saldo del capitalismo trionfante di cui parla Marx: è un partito nel quale quella cultura politica che D’Alema esprime al massimo livello di chiarezza è largamente maggioritaria, seppur in forme più ambigue e più sfuocate.

Che differenza c’è tra D’Alema e suoi eredi come, Cuperlo, Zingaretti, Provenzano, Bettini, Orlando, che oggi guidano il partito? Nonostante il debole e accorato appello di Letta a difesa del partito, la golden share del Pd è ancora saldamente nelle mani della corrente “dalemiana”, che è stata l’artefice con un consenso unanime dell’alleanza antiriformista tra Pd e M5S, tra massimalismo e populismo, incarnata nel Conte II e nel sogno del Conte III.

Il piccone demolitore della “ditta” ha già inferto colpi durissimi alla costruzione veltroniana del Lingotto fin dal 2009, ha già disintegrato in larga misura quel progetto di uscita dalla tradizione Pci-Pds-Ds di cui il Pd doveva costituire la nuova forma partito, contendibile, maggioritario, pluralista, laico e che oggi sopravvive come un simulacro di sé stesso, navigando nelle acque limacciose delle “agorà” alla ricerca proprio di quei morti: i loro padri a cui sono debitori della distruzione della prospettiva riformista, che senza di loro non sarebbero mai riusciti a realizzare.

L’ombra di Conte
Come quella di Banquo, l’ombra del Conte III aleggia nelle parole di D’Alema che chiama a raccolta proprio la sua prole politica dentro e fuori il Pd per combattere Draghi, che unisce in sé sia quella tradizione liberalsocialista tanto esecrata dagli ultimi epigoni del Pci, sia la sua natura di “banchiere”, espressione vivente del capitale finanziario globalizzato, altrettanto esecrato in nome del nazionalismo statalista, che lega dalemismo e populismo.

L’attacco a Draghi è il vero contenuto politico delle dichiarazioni di Capodanno del “lider maximo” a pochi giorni dall’apertura delle urne per eleggere il Presidente della Repubblica: evocare l’attacco alla democrazia, il primato della politica e dei partiti, la lotta al capitalismo internazionale è l’ingrediente ideologico fondamentale per organizzare operazioni corsare contro candidati ritenuti ostili, a partire da Draghi stesso, identiche per finalità ed modalità a quelle messe in atto nel 2013 e nel 2015.

Le truppe dei peones del Pd sono l’interlocutore ideale di questo disegno, tra cui si annidano uno stuolo di vedove e vedovi di Conte, che non hanno accettato la svolta renziana del governo Draghi, che ancora sono sensibili al richiamo di “Conte o morte”, in cui si annida l’intento di restituire alle oligarchie di partiti esanimi e di movimenti i dissoluzione il maneggio delle risorse pubbliche e la gestione dei fondi europei in vista delle elezioni del 2023.

Se non si riesce a cacciare Draghi da ogni ruolo, meglio imbalsamarlo al Quirinale e andare quanto prima alle elezioni per intestarsi la lotta sinistra demopopulista contro destra sovranista, perdere quasi sicuramente, ma trovarsi tra le mani un partito minoritario, identitario e ideologico: una specie di Linke o France Insoumise in salsa italiana, magari dotato di un bottino elettorale più ricco collocato per un quinquennio nella comfort zone dell’opposizione.

Il ritorno del partito vecchio
D’Alema può resuscitare come vero leader della sinistra massimalista post-comunista se questa operazione dovesse riuscire e da qui rilegittimarsi per riprendersi il Pd che aveva tristemente lasciato nel 2013 dopo la vittoria di Renzi alle primarie: riprendere il controllo del Pd per trasformarlo nell’ennesimo “partito nuovo” cioè nella quarta reincarnazione del Pci e abbandonando definitivamente alle ortiche il vecchio partito riformista di Renzi e Veltroni nel quale potevano convivere socialdemocrazia e liberalismo progressista come in ogni partito della sinistra europea.

Riconquistare il Pd per disintegrarlo definitivamente e ritornare al partito old style è un progetto più forte di quando sembri. D’Alema lo ha già sperimentato con il Pds di Occhetto, con l’Ulivo di Prodi, persino con i Ds sempre con il medesimo intento: impedire che la sinistra italiana si liberi dalla soggezione alla tradizione del Pci, ritenuta una chiesa eterna fuori dalla quale non c’è nessuna salvezza e tutta la storia si risolve in un eterno ritorno.

Liberarsi da questa condanna ha guidato la storia del riformismo in Italia dalla caduta del muro di Berlino fino ad oggi: una lotta difficilissima e che sono in poche occasioni è riuscita a imporsi e a uscire da una condizione di minoranza: con l’Ulivo di Prodi, con la nascita del Pd, con la stagione renziana, e che ha avuto per posta la modernizzazione democratica del paese, la laicizzazione della politica, il superamento di una visione fideistica della storia e il rifiuto del comunismo, l’antipopulismo e l’adesione a un convinto europeismo atlantista.

Gli auguri di buon anno di D’Alema ai suoi compagni evocano dunque tutto questo fardello di ritardi, di occasioni mancate, di scelte sbagliate che sono più vive di quanto si potrebbe supporre: per consegnarle alla storia ci vorrebbe assai di più che un’alzata di spalle o un richiamo emotivo, ma una linea politica che oggi è purtroppo assente.

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