Riformisti e progressisti
Oggi “riformista” e “progressista” sono tornate a essere parole molto presenti nel lessico della politica, anche se il loro significato è poco conosciuto, In realtà, sono due termini che nascono nel campo storico della sinistra europea e assumono entrambi il progresso sociale come fine dell’agire politico, anche se non vogliono dire la stessa cosa.
Il vocabolo “progressista” non dice come si debba realizzare quell’obiettivo, mentre il termine “riformista” individua prima ancora che una tavola di valori una strategia politica per raggiungere quel fine. L’ideologia del progresso ha come antagonista il conservatorismo politico, che intende impedire il raggiungimento di una sempre maggiore giustizia sociale: è cioè racchiuso esclusivamente nella dialettica destra-sinistra, progresso-reazione e si risolve, in sostanza, in una dichiarazione di principio che può essere declinata in molte maniere nel concreto della lotta politica. Progressisti lo erano Robespierre e Napoleone, Filippo Turati e Lenin, Rosa Luxemburg e Friedrich Ebert, Palmiro Togliatti e Carlo Rosselli, Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer. E oggi lo sono Jeremy Corbyn e Barack Obama, Matteo Renzi e Massimo D’Alema, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon e l’elenco potrebbe continuare.
“Riformista” invece è una parola che indica, più che una tavola di valori, un indirizzo politico, che ne esclude altri, per raggiungere “l’emancipazione dei lavoratori”. Fin dalle sue origini nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento, esso nasce come “revisionismo” cioè come un ripensamento complessivo dell’intero impianto dottrinario del marxismo che giungeva a rifiutare l’antagonismo irriducibile tra socialismo e democrazia, a sostenere la convinzione che il destino del capitalismo non fosse l’impoverimento delle masse e che la rivoluzione non fosse l’esito inevitabile dello sviluppo del capitalismo.
In quest’ottica, il socialismo per i riformisti non coincideva più con un modello sociale definito in astratto, né con una meta palingenetica nella quale si risolveva l’intera storia dell’umanità, ma costituiva invece l’esito sempre mobile di un processo costante di evoluzione della società in direzione del benessere collettivo, che poteva essere raggiunto attraverso le riforme, cioè con continui interventi di miglioramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici.
Tra riforme e rivoluzione
Ma il riformismo è osteggiato dalla forza della soluzione rivoluzionaria che si impone in tutto il mondo nel corso del Novecento aprendo uno iato profondo tra progressismo, sinonimo di sinistra, e riformismo, considerato di “destra” e quindi un nemico da combattere, come il liberalismo, il fascismo, la democrazia.
La profondità di questa frattura nelle democrazie occidentali rimase anche quando i partiti comunisti smisero di voler “fare come a Mosca”, ma rimasero ancorati a una visione politica che ipotizzava il socialismo come “sistema” da realizzarsi in un possibile “dopo” rispetto alla democrazia liberale e al capitalismo. In un “mondo nuovo”, insomma, che trasformava le riforme in un mito politico: riforme di “struttura” che si potevano realizzare solo nel processo di fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico – anzi ne erano l’effettivo strumento – e mentre si realizzava una democrazia “progressiva”, che non era come quella effettivamente esistente, ma un’altra fondata su un diverso modello di sviluppo.
La frattura tra progressismo e riformismo sarebbe rimasta profonda fino alla caduta del Muro di Berlino, che consacra il riformismo come unica soluzione politica in grado di promuovere i diritti dei ceti più deboli, fino a farlo coincidere il larga parte con il progressismo. In Italia l’esito di quel crollo è stato ancor più complesso perché non si è trattato soltanto di traghettare l’intera sinistra nello spazio del riformismo, ma anche di rompere l’unità politica dei cattolici, favorendo così la ricomposizione delle forze riformiste sparse nelle diverse famiglie politiche. L’Ulivo è frutto di questo processo e della ricomposizione tra riformismo e progressismo, che sono stati i frutti più duraturi della cosiddetta Seconda Repubblica.
L’immarcescibile eredità del mondo nuovo
Ma la sovrapposizione tra progressismo e riformismo non si realizzò pienamente, perché in tutti i Paesi dove avevano operato partiti comunisti o dove all’interno dei partiti laburisti e socialdemocratici vi erano state forti componenti massimaliste, quel crollo alimentò la nascita di partiti – da Rifondazione comunista alla Linke tedesca, fino al Bloco de Esquerda portoghese – che non si riconobbero nella soluzione riformista ora maggioritaria, ma rivendicarono l’attualità di un radicalismo politico che si proponeva non tanto di cancellare l’economia di mercato quanto di mantenere un forte controllo pubblico sull’economia.
In Italia, però, il residuo messianico della cultura comunista ed estremista, che giudicava il riformismo un pragmatismo senza principi, non rimase racchiuso in piccole formazioni politiche minoritarie ma ricomparve, mai domo, in varie fogge dentro il Pds e i Ds e alla fine dentro lo stesso Pd, alla ricerca di un riformismo “aggettivato” – radicale, progressista, avanzato, popolare – che guardava a nuovi mitici “dopo” e che neanche tanto sotterraneamente continuava a pensare che il riformismo fosse “destra”.
Tra neoliberismo e populismo
Questo fenomeno si è rafforzato con l’affermazione del nuovo capitalismo globalizzato che metteva in discussione i pilatri stessi del riformismo maturati nel grande ciclo espansivo degli anni Cinquanta-Ottanta, riducendo fortemente le capacità delle tradizionali policies e politics delle forze riformiste di “tosare” questo capitalismo di tipo nuovo, finanziario e immateriale, come era accaduto con quello di matrice fordista.
Non va poi dimenticato che nelle pieghe dell’egemonia neoliberista, mentre il riformismo annaspava, emerse una sorta di “terza via” populista che intendeva proporre una nuova alleanza tra capitale e lavoro di stampo corporativo all’interno di Stati chiusi e sorretta dal protezionismo e dalla spesa pubblica: una risposta nazionalista e statalista che riprendeva alcuni temi propri del progressismo piegandoli in una logica assistenziale e “anticapitalista”, dotata però a suo modo di accenti “messianici”, che ipotizzavano nuovi mondi e nuove società.
Di fronte alla sfida del neoliberismo e del populismo comincia a farsi strada un’altra prospettiva, molto più complessa e avvincente, che attribuiva alla sinistra il compito di guidare la necessaria rivoluzione liberale, per liberare i capitalismi nazionali dalle bardature stataliste ereditate dal passato favorendo la concorrenza e l’integrazione su scala mondiale e ridimensionando tutte rendite corporative: in sintesi, sfidare il globalismo sul terreno dei diritti, della sicurezza sociale, delle garanzie democratiche, nella convinzione che nel mercato si nascondessero straordinarie opportunità per proseguire nella strada dell’emancipazione del lavoro e per promuovere eguaglianza.
Di fronte a questa prospettiva, quelle componenti della sinistra progressista che maggiormente erano rimaste ancorate ai residui ideologici del passato hanno respinto questo approccio e hanno continuato a pensare che il compito dei riformisti fosse mettersi a difesa del passato, dell’eredità del “compromesso socialdemocratico” che nel Dopoguerra aveva consentito la nascita del welfare e della democrazia di massa.
Tra riformismo e progressismo, dunque, si riapre uno iato, una frattura, nella misura in cui il primo si riconosceva sempre più in una sinistra liberale da cui erano scaturite le esperienze di governo di Tony Blair, di Romano Prodi, di Bill Clinton, di Gerhard Schröder, fino a Renzi e a Macron, mentre il secondo riconfermava i propri riferimenti classisti e i suoi compiti di rappresentanza sociale.
Dietro alla lotta senza quartiere contro Renzi da parte delle correnti della “ditta”, che ha portato alla sconfitta elettorale del ’18 e alla mutazione irreversibile del Pd in una riedizione stantia dei Ds, emergeva questo contrasto storico che ha minato fin dalle origini il profilo identitario del Pd e che ora si è aggravato in conseguenza dell’incontro inevitabile tra questa sinistra progressista e il populismo di sinistra, giustizialista e anticasta, in nome di un ritorno allo statalismo e alla lotta alla diseguaglianza in chiave assistenzialista e “anticapitalista”, confondendo Keynes con Thomas Piketty.
Il centrosinistra: una casa senza i riformisti
Tra le ricadute politiche negative della simbiosi ideologica demopopulista vi è la trasformazione del centrosinistra in un’alleanza frontista di sinistra. Si autodefinisce centrosinistra, ma è un’altra cosa ed è sempre più lontano d quello ulivista degli anni Novanta: è un “campo stretto” che trova la sua identità politica nella negazione del Lingotto, in quanto sforzo maturo di trasformare la sinistra liberale in un progetto politico postideologico e inclusivo.
In questa nuova casa c’è sempre meno posto per il riformismo, se non in funzione subalterna e silente ma ancora utile “per fare numero”, nella prospettiva del confronto elettorale con un’altra finzione rappresentata dal centrodestra, in un sistema politico ingabbiato in un bipolarismo fasullo in cui entrambe le parti sono egemonizzate dal populismo e radicalizzate da una reciproca delegittimazione.
In una dialettica destra-sinistra tra il “fronte popolare” di Enrico Letta e Giuseppe Conte e il sovranismo nazionalista di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, lo spazio del riformismo è tanto più significativo quanto più rifiuta il ricatto “o stai con il centrosinistra o fai il gioco della destra” e si mette in cammino per fare saltare questo schema di gioco unendo le sue diverse componenti che stanno in entrambi i campi.
Per sparigliare le carte del sistema politico della Prima Repubblica, paralizzato dalle eredità della Guerra fredda, ci volle il cataclisma della caduta del comunismo; per rompere questo bipopulismo inconcludente ci vuole certo molto meno, ma sicuramente molto di più che un semplice aggiustamento proporzionalistico della legge elettorale, per il quale forse non c’e nemmeno tempo fino alle elezioni del 2023.
Quello che i riformisti possono fare nell’urgenza dell’oggi è prendere sul serio un’affermazione di Paolo Gentiloni di fronte alla guerra delle correnti, secondo cui che era necessario «costruire il Pd da un’altra parte»; una metafora che indica la necessità di un nuovo inizio, con un taglio di cordoni ombelicali, per cominciare a costruire una casa “federale” nella quale i riformisti che oggi abitano diverse dimore politiche possano trovare uno spazio comune di iniziativa politica.