In trinceaL’Esame di coscienza di un letterato e il talento incompiuto di Renato Serra

Il libro del critico letterario romagnolo è il resoconto di una crisi e di un’attesa, quella di una svolta, che a ogni singola lettura lascia in bocca il sapore del commiato. Questo dilettante di genio e senza il gusto del bonheur è forse morto troppo presto. Deceduto come tenente di complemento nella seconda battaglia dell’Isonzo. Il suo récit è da leggere oggi più che mai, pur se nessuna guerra ci minaccia da vicino

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Ho di nuovo riletto l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra – succede a intervalli non regolari. Il motivo lo so e non interessa: conta l’esigenza di riprenderlo in mano, rileggerlo, riparlarne. A far da spinta, e non poco, ora l’edizione critica del testo (Edizioni di Storia e Letteratura), con un commento di quasi cento pagine, frase per frase: ammirabile, un testo di sostanza storica e ricchezza d’argomenti che lo fanno d’emblée indispensabile. Un fatto è certo: l’Esame è un classico minore e fondamentale.

L’ossimoro è solo apparente, per chi non osserva le regolette del Metodo (quale sia la variante): per chi non ha eletto lo Spirito e la Storia (lo Stato, in politica) al soglio pontificio. (Il liberale non erige altari a nessuna divinità terrena – e quanto al Creatore, lascia la libertà del silenzio). La pratica della lettura e lo studio della storia insegnano che opere di minor respiro possono avere sostanza e di gran momento. Tale è il caso dell’Esame – e così la ricorrenza della lettura.

Vale dire di un fatto riguardo i due autori e scholar, Marino Biondi e Roberto Greggi: l’equipaggio, un due-senza, nasce per favorevole e manifesta passione di entrambi per la vicenda (e il problema) Serra, non per opportunità accademica e quant’altro. Una notizia e benvenuta: e i cui frutti si colgono alla lettura.

(La scelta dei curatori di pubblicare l’Esame insieme alle Carte Rolland e al Diario di trincea non è solo premio al lettore: è intuizione critica e sviluppata con vigore. Pure non è qui il luogo di approfondire: dirò solo dell’Esame).

La vicenda Serra: un letterato, uno scrittore-lettore, uno dei tre moschettieri della sua generazione (Cecchi, Borgese, Serra), dilettante di genio e senza il gusto del bonheur, e così arrivato alla nausea della letteratura, e non solo, c’è ben di più, mentre l’attesa della guerra (siamo nel 1915) esacerba animi e animule: è urgenza. Il problema Serra: il suo prender spazio nella memoria del lettore nonostante tutto. Dove per tutto s’intende il sospetto di lezio, che subito l’intelligenza della prosa contrasta e vince; il fastidio per una astenia di fondo che la solidità dell’impianto letterario attenua; l’empatia che scatta al primo giro di frase e l’alone di corruzione. Per farla breve: Serra dice qualcosa che sempre ci riguarda.

L’Esame è un récit, il resoconto di una crisi e di un’attesa, quella di una svolta, che a ogni singola lettura lascia in bocca il sapore del commiato. Un commiato sereno. Il letterato di talento purissimo a cui è venuta a schifo la letteratura come esercizio critico, il ludopatico morso dalla noia e vittima dell’infezione, il maschio che convive con il fallimento sentimentale trovano infine la serenità per dire addio a tutto questo spiccando parole e frasi memorabili di passione. Passione, è la parola chiave; insieme alla locuzione andare insieme. Sono glossa finale.

Il récit serriano è pubblicato da Giuseppe De Robertis sulla Voce, il 30 aprile 1915; Renato Serra muore sul Podgora il 20 luglio 1915, come tenente di complemento, nella seconda battaglia dell’Isonzo. Il destino del letterato si compie come soldato. In quel breve lasso di tempo l’Esame già lascia il segno: alla sicura ammirazione di De Robertis e dei vociani fan riscontro l’ironia avvelenata di Borgese e lo scarto infastidito di Benedetto Croce, il sacro custode del pensiero – e bisognerà dirne. Serra è per De Robertis non soltanto il letterato più stimato e l’ideale collaboratore: tra i due scorre l’amicizia: tumultuosa e ammirata da De Robertis, larga e affettuosa da Serra (Ne dà conto un libro di Marino Biondi, Renato Serra. Biografia dell’ultimo anno nel carteggio con Giuseppe De Robertis, del 1995): la loro è “storia di uomini e non solo di letterati”. Entrambi avvertono l’arrivo della Seconda Modernità, quella che sarà dopo il conflitto, ma la posizione verso la guerra è diversa: De Robertis ribadisce il suo voler continuare a far letteratura nella guerra, vista come tragica interruzione; Serra aspettava una interruzione al far letteratura che non lo appaga, si interroga: un esame di coscienza. L’incipit dell’Esame va in soccorso all’amico: “Credo che abbia ragione De Robertis; quando reclama per sé e per tutti noi il diritto di fare della letteratura, malgrado la guerra”: il fatto è che Serra ha in mente altro dalla letteratura e un’altra letteratura, e tout court

(L’anno prima aveva pubblicato un saggio di cronaca letteraria di fredda precisione e implacabile serietà, Le lettere – e sarebbe bene che un editore di scala nazionale ripubblicasse il libro, e a cura di un letterato. Qui dopo aver lamentato la fretta nel liquidare i grandi del secondo Ottocento non esita a stigmatizzare le debolezze dei nuovi iconoclasti: dice di “banalità” e “curiosità senza discernimento”, tra le altre. Pare una polaroid della buzzonaglia detta “pura narratività”). 

Inequivocabile, come Serra sgombri il tavolo: “Credo di aver detto, fra le altre cose, che la letteratura mi faceva schifo, «in quel momento»; e in ogni modo, se non l’ho detto, ho fatto come quelli che lo dicono; (e se l’ho detto, ho detto la verità”)”. Poche righe e poi l’affondo: “È una così vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, me è quello solo; accanto agli altri che sono stati, e che saranno; non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura”. Tutto è detto qui, senza tema di tornarci sopra – compresa la frase finale, con quel “neanche” a prender distanza. Pure Serra non si sottrae all’impegno di registrare e respingere le ragioni di tutti coloro che spingono all’intervento, all’entrata nel conflitto: è gioco da ragazzi, per lui, irridere all’attivismo di chi sventola gli emblemi del tempo e non intende il mondo. (Qui il commento di Biondi e di Greggi è prezioso, per valore dell’approfondimento storico e ricchezza di rimandi). A contare è il tempo del mondo; poca cosa, il resto. Non valgono le ragioni della Storia; e vale per ogni epoca.

“E non parliamo più della guerra”: così si chiude la prima delle due parti del récit. Tutto in ordine, quindi. No. “Anzi, parliamone ancora (…) Il conto non è finito. Ho detto che questi pensieri mi pesavano, che bisognava liberarmene. / E, dunque, sono libero. Di pensieri (…) Sono libero e vuoto, alla fine”. Più nessuno spazio per le sollecitazioni della storia, tanto meno della politica che dà in fragore di canaglia: Serra è in quel punto in cui indifferenza del mondo e ragioni dell’intimità coincidono: il punto in cui si acconsente al destino (naturalmente, Croce ironizza sull’amor fati), dove si coglie la natura di pre-testo delle risoluzioni ragionevoli, lo scrutinio freddo. Non è più tempo di interrogazioni, e pure l’inquietudine si è allontanata (“È lontana; non è più mia”). In quel vuoto c’è una tensione, che stringe: qualcosa che irrompe. “È la passione. / Come ieri, come sempre. Quante volte ho portato con me questa compagnia. Non mai così intima come oggi, come questa, che non ha né volto né nome; è tutta una cosa con la mia solitudine più sola e con la mia contentezza più amara”. Tout se tient: la passione riporta la solitudine al posto che le spetta: il mondo, degli uomini – e quella “contentezza più amara” che sarà di Albert Camus. Che sia la vita o la morte si va con passione, tra gli uomini.

Lo scatto è nella cognizione della solitudine che si accompagna alle altre, per via di passione del mondo e accettazione della vita/morte. È il preludio alla locuzione che chiude il conto. “Esser pronti, ognuno per suo conto, non significa niente; essere indignati, disgustati, avviliti è solo una debolezza. La realtà è quella che vale. Anche la disgrazia è un peccato; e il più grave di tutti forse”. Serra si raccoglie, dice di una generazione ricca di tutto e che tutto ha buttato – e fischiano le orecchie –, di giorni passati come l’acqua tra le dita, e aggiunge di non avere paura né illusioni: non si aspetta niente, e ne fa vanto: “Ciò fa più semplice e più sicura la nostra passione (…) Si ha voglia di camminare, di andare”. Il movimento basta, e avanza. (La vita, al solito ironica, avrebbe offerto la stasi della trincea). Serra accorcia: “Andare insieme”: la locuzione che basta: “E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili”. Sintassi e sentimento si sfidano, ed è così che Serra ci saluta e parte.

(Non prima di essersi accomiatato dall’amico De Robertis e aver indicato il da farsi: “Dirai che anche questa è letteratura? / E va bene. Non sarò io a negarlo. Perché dovrei darti un dispiacere? / Io sono contento, oggi”: ed è finale memorabile, di tutti. Ironizzi pure Borgese; scarti infastidito Croce: che importa?).

L’Esame di coscienza di un letterato è un classico e nuovo, che vale leggere; oggi più che mai, pur se nessuna guerra ci minaccia da vicino: il conflitto regna sempre. Il lettore avrà inteso il motivo della mia fedeltà. Rimane da dire cosa mancò a Serra per essere all’altezza della sua prosa e dell’ingegno: la vocazione alla felicità. Montaigne gli era fraterno, come a tutti noi amatori delle lettere; pure è Stendhal, il nume protettore: la chasse au bonheur è il filo logico del dilettante, il suo emblema. La felicità di far libri, anche, mancò a Renato Serra: la sostanza di Sciascia, Garboli, Calasso: lettore, scrittore, editore (o editor). Il balsamo che oggi è negato. Non si può rimproverarlo, a Serra: la felicità è una vocazione.

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