Talking Heads – “Fear of Music”, 1979
Se il titolo suggerisce una paura apparentemente paradossale (paura della musica?!), “Fear Of Music” comunque è un album sulle paure. Non necessariamente la fonofobia (che è la paura di un rumore improvviso, come una sirena o un’esplosione o una musica che destabilizzi l’equilibrio nervoso): quello è un titolo scherzoso, una battuta, «pensavo che potesse essere spiritoso intitolarlo così», disse ai tempi David Byrne.
Ma è sicuramente un album che declina la paura, il disagio, l’estraniamento in tante maniere diverse. È il terzo album dei Talking Heads, e dopo due album in cui la scrittura ha evidenziato la capacità di osservazione quasi antropologica di Byrne riguardo ad aspetti e dettagli della vita quotidiana – dal cibo agli edifici al Governo, dall’amore ai mestieri, dai serial killer urbani ai paesaggi suburbani – in queste undici canzoni lo sguardo non è più verso l’esterno, ma rivolto all’interno, verso il sé – a volte personale, a volte spersonalizzato – di un uomo parecchio singolare di suo.
Nel libro ’Remain in Love’ in cui il batterista Chris Frantz racconta i 15 anni di esperienza dentro e fuori una delle band più geniali della storia, ricordando il loro incontro dice: «Byrne è entrato nella musica per uscire da sé stesso». Ecco, in “Fear of Music” succede che dopo aver osservato, analizzato, giudicato in maniera quasi distaccata, fredda, quello che ha intorno, improvvisamente lo sguardo venga rivolto al suo interno.
Nella sua recensione per Rolling Stone, Jon Pareles scrisse: «I suoi nuovi testi eliminano praticamente ogni astrazione: non considera, he feels, sente. C’è poco passato e nessun futuro, solo un groviglio di sensazioni, come se contasse solo quello che è nelle sue possibilità in quel momento. Le canzoni sono invariabilmente in prima persona, e menzionano pochissimi caratteri esterni: il suo mondo interiore è il suo unico rifugio». Come un paranoico che si chiude in un rifugio antiatomico isolandosi dal mondo, e scopre che le paure non se ne sono andate, anzi col tempo sono aumentate, e che quello con cui deve fare i conti non è fuori di sé, ma dentro.
Byrne dipinge un ambiente alquanto distopico, i suoi personaggi – sé stesso, in pratica – li percepisce totalmente immersi in uno stato d’animo inquieto, in un alone di paranoia, di incomunicabilità, attanagliati dalla nevrosi della solitudine e dell’incertezza. Il risultato è un album di grande e rarissima tensione, elettrico per i sensi e i nervi (suoi e di noi che ne veniamo risucchiati, felicemente peraltro), che ti inchioda e dal quale è difficile uscire. Quantomeno uscire come se nulla fosse successo.
Che tutto questo generi una musica che da una parte ti ipnotizza ma dall’altra si faccia ballare è il miracolo laico di cui gli Heads sono stati capaci: intellettuali sul dancefloor, discotecari alle prese con il dadaismo. Nello stile che renderà famoso Byrne: mondi che collidono, contrapposizioni che stridono, sintesi che si realizzano oltre ogni ragionevole dubbio.
Quei lunghi 15 anni insieme forse sono stati una sorpresa per loro stessi. Quando Byrne e Frantz si diplomano a Providence, alla Rhode Island School of Design, nordest liberal degli Stati Uniti – uno dei rarissimi esempi americani di gruppi nati in una art school, cosa molto frequente invece nell’Inghilterra degli anni 60 e 70 – chiudono l’esperienza con la loro band, gli Artistics (guarda caso), e si trasferiscono a New York, non lo fanno per metterne su un’altra. Ma prendono residenza in un loft nella zona più economica e sgarrupata della Mela, la Lower East side, in quegli anni la sublimazione del trasandato, e si trovano inevitabilmente coinvolti nell’atmosfera artsy e musicale di quell’angolo bohemienne della città. Una città sull’orlo del dissesto finanziario, sporca, pericolosa (c’ero, e me ne sono accorto di persona). Ma anche incredibilmente ricca di stimoli, tutti diversi, tutti insieme.
Frantz rimane fulminato un giorno in cui entra al CBGB, quel localetto dipinto di nero e scarabocchiato in tutti i modi che sa di «birra, spray per le blatte, cacca di cane (del proprietario Hilly Kristal), e Chanel no.5», e incappa nei Ramones. Pensa sia una band messicana, e invece vede a sea of possibilities, come recitava Patti Smith. Convince David a riprovarci. Serve un bassista, ma non ne trovano uno che li soddisfi. E allora Tina Weymouth, fidanzata e poi moglie di Chris, se ne compra uno di seconda mano quasi più grande di lei, e impara a suonarlo.
È una coppia improbabile per una band, lui caruccio, per bene e figlio di un generale dell’esercito, lei caschetto biondo e occhioni azzurri, vista la prima volta alla R.I.S.D. su una bici gialla «come in un film di Truffaut». Due innamorati folli oltrechè l’un dell’altro anche del soul/r’n’b, diventa la solidissima sezione ritmica sulle cui fondamenta viaggerà la musica nervosa e imprevedibile di Byrne. Se loro sono easy e di buon umore, nel libro Franz dipinge Byrne come un ragazzo strano assai, timido, introverso, un po’ fuori asse: quando viene a mangiare dai genitori, i piselli li mangia mettendoli tutti in fila sul coltello e lasciandoseli scivolare in bocca. Il rapporto con lui non sarà facile, «prevaricatore di natura, tendeva sempre a non riconoscere il nostro ruolo nella creazione della musica, spesso ’dimenticandosi’ di metterci nei crediti», ma riguardando indietro sa che quei 15 anni non avrebbero potuto viverli in modo più entusiasmante. Come non esser d’accordo?
A Tina viene dato il tempo di imparare bene a suonare, sul modello hard rock di Suzy Quatro e con un po’ di incoraggiamento da parte del vicino di palazzo, il jazzista Don Cherry. Il trio sperimenta col sassofonista Fletcher Buckley e col violoncellista Arthur Russell, artista d’avanguardia, su una prima versione di ’Psycho Killer’; ma con l’aggiunta di Jerry Harrison, che viene dal proto-punk-garage di Jonathan Richman and the Modern Lovers, il quartetto prende forma definitiva. Non si mettono fretta, sanno valutare il tempo necessario per affinarsi tecnicamente e plasmare una propria identità: il primo palco arriva due anni dopo, al CBGB il 5 giugno ’75 come supporter proprio dei Ramones, e passano altri due anni per “77”, l’esordio discografico per la Sire, etichetta che raccoglie molto del talento cittadino, dal punk alla dance (Madonna e Blondie incluse).
I primi due album dei Talking Heads, nome che corrisponde ai nostri ’mezzibusti’ televisivi (“77”, stesso anno del titolo, e “More Songs About Buildings and Food”, 1978) sono diversi da quelli di tutta la nidiata che esce dalla culla del CBGB e dalla New York dei medi anni 70, in cui si mischiano punk e avanguardia, disco e glam, jazz e r’n’r. Come dice Frantz, «eravamo post-punk prima ancora che venisse inventato il punk». Niente a che vedere con l’energia caciarona dei Ramones, col pop-punk modaiolo dei Blondie, con le ambizioni letterarie della poetessa Patti Smith, con il rock’n’glam degli (già stagionati) New York Dolls, nè col punk brutale di Richard Hell o degli Shirts, niente jazz-funk alla James Chance/Contortions, lontani anche da quella scena No New York che si ritroverà in una famosa compilation del 1978 curata proprio da Brian Eno. Forse il gruppo a cui son più vicini sono i Television, ma le strade si dividono presto, quando gli Heads incorporano altri ritmi oltre al classico 4/4 rock.
Da ex-studenti di design, fanno una musica molto angolare, nella quale passaggi pop orecchiabili si alternano a riff veloci e acidi, scariche di tensione che poi si placano, marcette da marching band che suonano come funk minimalisti che non sai mai bene dove ti possono portare. E su tutto questo la voce, tirata e strozzata, mai rassicurante e sempre con un fondo di nevrotica ironia di Byrne. Il ritmo non è punk, ci sono «ritmi disco sottilmente cammuffati», le melodie non sono ordinarie, la realtà è una sorta di sguardo hitchockiano dalla finestra del cortile.
Fra i primi brani, tre diventano classici instantanei. ’Psycho Killer’ rimanda subito al famoso omonimo film di Hitchcock, e Byrne un pò ad Anthony Perkins/Norman Bates assomiglia pure: «Trovavo sia il Joker che Annibal Lecter molto più affascinanti dei buoni. Al cinema tutti fanno il tifo per i cattivi». E un serial killer, Son of Sam, in quel periodo si aggira davvero per le strade della Mela.
’Warning Sign’ (testo di Frantz accreditato solo successivamente) ha proprio quel senso di tensione che l’avviso di pericolo imminente segnala, «segnale di pericolo, segnale di pericolo/lo vedo ma non gli presto attenzione».
’Big Country’ è uno sguardo dall’alto sulla realtà suburbana americana, non esattamente il luogo ideale per un newyorkese. Forse proprio per espiare (molto a modo suo) un giorno Byrne attraverserà ’quella America’ nel film True Stories:
«Vedo il campo da baseball, c’è bel tempo laggiù
Vedo la scuola e le case dove risiedono i ragazzi
I parcheggi vicino alle fabbriche e agli edifici.
Poi sorvoliamo le fattorie e le zone non sviluppate
Ho imparato come funzionano
Vedo l’autostrada che le attraversa.
Ho imparato a guardare queste cose e dico
Non potrei fare le cose che quelle persone fanno
Non abiterei lì neanche se mi pagassero»
Sono due dischi di gran livello, soprattutto il secondo, nel quale alla produzione è subentrato Brian Eno, conosciuto nel primo tour inglese e che ha immediatamente legato, in particolare con Byrne. Ma non succede nulla fuori di NYC (una scena assolutamente autoreferenziale e parecchio snob, i media cittadini pensavano che ogni cosetta nata in città fosse la più importante del mondo) finchè la versione di ’Take Me To The River’ non arriva nella Top 30 dei singoli dopo una celebre apparizione televisiva ad American Bandstand e subito dopo una a Saturday Night Live.
Il brano, scritto da Al Green (e poi portato al successo da Syl Johnson, entrambi sull’etichetta soul Hi), magnifico esempio di neo-gospel nella loro versione, riceve un trattamento new-wavish che ne cambia i connotati, lo rende qualcos’altro. Una fantastica linea di basso di Tina, la scansione sempre uguale e mai monotona di Chris, e l’interpretazione di David – lontanissima da un cantato soul, una sorta di crooner new wave che singhiozza e scandisce, torcendo le parole e il coro in qualcosa di più terreno – lo rendono un classico istantaneo.
È chiaro che la focale è sullo stare lontano dall’ortodossia rock, cercare di trasformare vecchi idiomi in nuove forme che li superino, mutare il fuori lasciando immutato il dentro – a volte il contrario. Il concetto di ’studio di registrazione come strumento’, che Eno introduce nella dinamica degli Heads per i tre album che staranno insieme comincia a sentirsi già da “More Songs”: le stratificazioni degli strumenti, i ritmi che si fanno più complessi, piccoli tocchi qui e là che noti solo con attenzione, ma donano al progetto qualcosa in più.
“Fear of Music” però a mio parere è un salto quantico, un’ulteriore dimostrazione, se ce n’era bisogno, che gli Heads sono senza sforzo, con naturalezza, già nel futuro. Come diceva Frantz, sono già in partenza post-tutto, perché hanno quella incredibile capacità di sintetizzare il passato e tutti i segnali di futuro come l’avanguardia concettuale, i poliritmi africani che aprono il rock all’esotismo della world music, il superamento del linguaggio narrativo – o almeno descrittivo – in favore di brevi flash che segnano gli snodi della storia, basta connetterli.
Anticipano l’estraniamento dell’uomo moderno, e soprattutto si pongono domande, che non sono né esistenziali né filosofiche, ma cibernetiche. Non a caso, qualcosa di simile a quello che Bowie e Eno negli stessi anni stanno facendo dall’altra parte dell’oceano. La personalità di Byrne, quello sguardo obliquo sulle cose, il capovolgimento continuo della prospettiva, spiazzano, proprio come saremo sempre più spiazzati tutti noi negli anni a venire.
Gli Heads cominciano a incidere nella primavera ’79 non in uno studio, ma nel loft a Long Island dove vivono Tina e Chris. Chiamano lo studio mobile della Record Plant per due domeniche consecutive, gli unici giorni in cui non c’è troppo rumore di traffico in strada, cavi che entrano dalle finestre. È il terzo stadio del concetto di registrare e scrivere ogni album in un luogo diverso, suono e ambiente differenti per dare un feeling diverso al risultato finale. I brani nascono da lunghe jam improvvisate e poi snellite e rifinite. I nastri vengono poi arricchiti di effetti e sovraincisioni sotto la supervisione di Eno.
Se c’è bisogno di un manifesto della rottura degli schemi, il nonsense dadaista che apre il disco, ’Gadji Beri Bimba’, poesia di Hugo Ball, considerato il fondatore a Zurigo nel 1916 del movimento dadaista, suggerito da Eno al momento di un blocco dello scrittore di Byrne, è perfetto. Ball riteneva la società in una situazione terribile e disdegnava le filosofie del passato che affermavano di possedere la verità. L’ambizione politica del movimento era quella di non scrivere tanto ’poesia con le parole’, ma di ’scrivere poesia fuori delle parole’, per creare un linguaggio totalmente nuovo, visto che il vecchio aveva perso autorevolezza, condannato e rovinato dalle sporche mani del capitalismo. L’impatto, più che inaspettato da parte degli stessi fan, è fantascientifico:
«Gadji beri bimba clandridi
Lauli lonni cadori gadjam
A bim beri glassala glandride
E glassala tuffm I zimbra»
Qui di politico non c’è nulla, ma di politica musicale ce n’è tanta: Fela Kuti incontra il dadaismo con la chitarra di di Robert Fripp (chiamato da Eno, sarà stato felice di vedere che ’l’uomo schizoide del 21° Secolo’ non era solo una fantasia crimsoniana), i cori che stanno a metà fra un villaggio africano e una fredda esercitazione fonetica intellettuale europea è qualcosa di mai sentito. Non è musica calda ma piuttosto meccanica, però i poliritmi potenti che viaggiano sotto la distanziano anche dai lavori di nuova elettronica europei di Fripp o dei Kraftwerk. È una fusione di musiche lontane mentre il linguaggio stesso viene abbandonato. È l’unico brano con questo stile dell’album, ma col senno di poi è anche il teaser e l’anticipatore del successivo “Remain In Light”.
Dopo, si torna all’inglese e alle canzoni, ma è chiaro che il livello di guardia si è alzato, e segnala che questo non sarà un album come tutti gli altri. In una recensione retrospettiva su Pitchfork, Jayson Greene ha scritto: «Hanno evitato ogni metodo che aveva funzionato precedentemente, cercando forse di diventare una versione diversa di sè stessi, eppure hanno solo purificato la loro essenza. Nel gettare a mare vecchi metodi e gettandosi in metodi nuovi, hanno abbracciato l’unica vera forza della loro musica: un interrogarsi senza sosta». Su suggerimento di Eno, i titoli sono una sorta di indice, un elenco di sostantivi attraverso i quali gettare uno sguardo sul mondo o, come abbiamo detto, su sé stesso: la Mente, la Carta, le Città, la Guerra, i Ricordi, l’Aria, il Paradiso, gli Animali, la Chitarra Elettrica, le Droghe.
«Il tempo non ti cambia
Il denaro non ti cambia…
Le droghe non ti cambiano
La religione non ti cambia
Cosa c’è che non va con te?
Non ne ho la minima idea.
La scienza non ti cambia
Sembra che neanch’io riesca a cambiarti…
Ho bisogno di qualcosa per cambiare la tua mente»
Una melodia dolcemente memorabile, accompagnata da un pizzicato di elettrica, il basso di Tina che si gonfia e sgonfia, è la musica di un grido di frustrazione disperata di fronte a qualcuno o qualcuna che non riesci a comprendere, impermeabile a ogni sollecitazione.
’Paper’, il ponte con lo stile dell’album precedente, veloce e nevrotica, parla (forse, perché certezze di interpretazione non ce ne sono mai con Byrne) della carta in metafora come una tessitura su cui disporre la propria vita, facendo filtrare la luce e rimanendo aggrappato, finchè alla fine non si strappa tutto e chissà che succederà dopo.
’Cities’ è la ricerca di un posto ideale dove vivere. Quattro sono le città, Londra «buia, buia di giorno»; Birmingham, dove ci sono «un sacco di persone ricche, e anche un sacco di fantasmi»; El Paso, dove la gente «non ha nessuna idea di dove siano», e Memphis, «la città degli antichi greci e di Elvis». E ogni volta, l’approccio termina nella stessa maniera:
«Le sto tenendo sotto controllo
E sto cominciando a capire
Ci sono punti a favore
E punti a sfavore
Trovare una città
Devo trovarmi una città dove vivere»
Sull’album (e dal vivo! quella incisa a Roma a dicembre 1980 con la versione XXL dei TH l’ho ascoltata fino all’esaurimento, eccovela sotto) ho sempre pensato fosse uno dei ritmi più eccitanti di tutta la storia del rock. Tina diceva che «le ritmiche di Byrne erano strane, ma geniali». Se mai vi dovesse servire un pezzo per tirarvi su, più di qualsiasi altro rimedio in natura, è questo.
A ruota, uno dei superclassici degli Heads, ’Life During Wartime’, l’unica con una struttura di narrazione, anche se per flash e immagini, tetre e minacciose. È un weatherman che parla in prima persona, un guerrigliero urbano, che vive undercover. È un film, dettagliato e realistico nella sua realtà parallela. Ma di realtà parallele, ben prima che arrivassero il web e il metaverso, noi italiani avevamo allora un’esperienza di prima mano.
I luoghi dei Talking Heads erano gli stessi dove vivevo in quell’estate, il Mudd Club e il CBGB a poche centinaia di metri dal mio loft a SoHo, mentre a casa i guerriglieri urbani delle BR c’erano sul serio, e la vita in Italia sembrava davvero come ’in tempo di guerra’. Era il mio disorientamento personale, questa e ’L’anno Che Verrà’ di Lucio fianco a fianco in mezzo a tutti gli Lp, due lati di una medaglia allucinante:
«Ho sentito di un furgone carico di armi
riempito e pronto per partire
Ho sentito di fosse comuni, sull’autostrada
un posto che nessuno conosce
Il suono di spari, in lontananza
mi ci sto abituando ormai
Ho vissuto in un brownstone, ho vissuto in un ghetto,
ho vissuto ovunque in questa città.
Questa non è una festa, non è una discoteca,
non è divertirsi in giro,
Non c’è tempo per ballare o pomiciare,
non ho il tempo per questo, adesso
Trasmettete il messaggio, a chi lo riceve,
spero che un giorno qualcuno risponda
Ho tre passaporti e un paio di visti,
non sapete nemmeno il mio vero nome
Là, sù una collina, i camion stanno caricando
tutto è pronto per andar via
Dormo di giorno, lavoro di notte
Potrei non tornare mai a casa
Questa non è una festa, non è una discoteca,
non è divertirsi in giro,
Non è il Mudd Club o il CBGB,
Non ho il tempo per questo, adesso
Hai sentito di Houston? Hai sentito di Detroit?
Hai sentito di Pittsburgh, Pennsylania?
Dovresti saperlo di non stare alla finestra,
qualcuno ti potrebbe vedere
Ho un po’ di alimentari e burro di arachidi
per andare avanti un paio di giorni,
Ma non ho microfoni, non ho cuffie
non ho dischi da suonare
Perché stare al college? Perché andare alla scuola serale?
Sarà differente questa volta
Non posso scrivere una lettera o spedire una cartolina,
non posso scrivere proprio niente
Questa non è una festa, non è una discoteca,
non è cazzeggiare in giro,
Vorrei baciarti, vorrei stringerti
ma non ho il tempo per questo, adesso
Problemi nel traffico, ho passato il blocco stradale
ci siamo mescolati alla folla
Abbiamo il computer, stiamo intercettando le linee
lo so che questo non è permesso
Ci vestiamo da studenti, ci vestiamo da casalinghe
oppure in giacca e cravatta
Ho cambiato pettinatura talmente tante volte
che non so più neanche a chi assomiglio
Mi fai tremare, mi sento così tenero,
siamo davvero una bella squadra
Non ti stancare troppo, guido un po’ io,
dovresti dormire un poco
Eccoti le istruzioni, segui le indicazioni
e poi devi cambiare indirizzo
Forse domani, forse domani l’altro
quando pensi sia il momento giusto
Ho bruciato tutti i miei quaderni, a cosa
servono i quaderni? Non mi aiuteranno a sopravvivere
Mi brucia il petto, brucia come una fornace
il bruciore mi tiene vivo
Cerco di stare bene, allenamento fisico,
non voglio beccarmi una malattia
Cerca di stare attenta, di non correre rischi,
e stai attenta a quello che dici».
’Memories Can’t Wait’ ha un incedere drammatico, la chitarra che scansiona ognuno dei 4/4, rimanda a un uomo ossessionato dai ricordi e dai fantasmi che girano nella sua testa, confessa con lucidità la sua confusione, ogni tanto esplodendo in un canto estremo e stremato:
«Ti ricordi qualcuno qui?
No, tu non ricordi assolutamente nulla.
Sto dormendo, sdraiato sulla schiena
Non mi sono mai svegliato, non ho rimpianti.
C’è un party nella mia mente…e spero non si fermi mai
C’è un party tutto il tempo…faranno festa fino allo sfinimento
Gli altri possono tornare a casa…se ne andranno tutti
Io resterò qui…non posso mollare mai…
Tutto è molto tranquillo
Sono andati tutti a dormire
Sono sveglio pensando ai ricordi
Questi ricordi non possono aspettare»
La seconda parte dell’album, con la possibile eccezione di ’Heaven’, è un viaggio, a volte onirico a volte ad occhi strabuzzati (immagine frequente sul volto di Byrne), in una mente in cui qualsiasi cosa sembra rappresentare un pericolo, un danno potenziale. ’Air’ avrebbe anche una melodia e dei coretti che lievitano, ma Byrne immagina una persona così impaurita da aver paura persino di respirare. Come se anche le cose più leggere, impalpabili, rappresentino un insulto alla materia:
«Cosa sta succedendo alla mia pelle, alla protezione di cui avevo bisogno?
L’aria ti colpisce in faccia, anche l’aria può farti del male
Ci sono persone che dicono di non preoccuparsi dell’aria
Ci sono persone che non hanno mai avuto esperienze con l’aria»
Gli animali di ’Animals’ sembrano uscire da un surrealismo orwelliano, in cui non rispondono più alla logica (c’è qualcosa che corrisponde a una logica, qui?!). La fattoria è fuori controllo, e il padrone è annichilito:
«Gli animali pensano, capiscono
Fidarsi di loro, un grande errore
Gli animali vogliono cambiare la mia vita
Ignorerò i loro consigli
Gli animali ridono di noi
Non mi importa se ridono di noi».
E poi, cosa c’è di più surreale e antitetico per un chitarrista se una electric guitar che viene investita sull’autostrada viene trovata colpevole da una giuria che emette un verdetto?:
«Non ascoltate mai una chitarra elettrica…
Qualcuno controlla la chitarra elettrica»
’Drugs’, che viene cantata/declamata da David con un tono da predicatore impazzito in mezzo ad affetti elettronici e distorsioni e rumori naturali (uccelli, una rana) è la perfetta conclusione di questo viaggio kafkiano, in cui succede di tutto ma in realtà non si muove nulla, in cui fantasmi e creature e animali vanno e vengono, in cui sul serio nella mente ci sono una sequenza di party (nessuno festoso), ma nulla sembra mutare:
«Sono carico…sono un po’ legnoso
Mi muovo appena…studio il movimento
Studio me stesso…mi sono ingannato!
Sono carico…è piuttosto intenso
Mi sento cattivo…mi sento ok
Sono carico…elettricità».
È il paradosso della tensione: così carico, così elettrico da esserne immobilizzato. ’Uncomfortably numb’, parafrasando i Floyd. Tanto che l’unica luce che rischiara questa seconda facciata (nel ’79 i dischi si sentivano così, qualcuno ricorda?) è quella del paradiso, l’eulogia di un luogo dove nulla si muove, nulla cambia. Del resto, è in accordo con tutto il disco, dove spesso il ritmo è lo stesso in ogni brano, dove gli accordi pochi e le armonie statiche, non seguono le tipiche progressioni pop. Dove la vita procede in loop, come nel «bar chiamato Heaven/dove la band suona la mia canzone preferita/all’infinito». La ripetitività è la cifra di quest’album, aggressivo e passivo insieme, stracarico e allo stesso tempo immobile. ’Heaven’, come ’Mind’, ha una melodia dolce, quasi sognante, ed evoca una pace fatta di nulla, ma forse dopo tutto questo agitarsi interiore la cosa ha davvero un senso:
«Il paradiso è un luogo dove non succede nulla…
È difficile immaginare che il nulla
Possa essere così eccitante, così divertente»
Molta critica, allora e anche adesso, considera “Fear of Music” un album di transizione, sottintendendo che non è pienamente realizzato, come se gli mancasse qualcosa. Certo, che sia un album di cerniera nella breve ma intensa discografia degli Heads mi sembra corretto dirlo, ma a me è sempre sembrato il “Revolver” degli Heads: sta a “Remain in Light” come “Revolver” sta a “Sgt. Pepper’s”, una sorta di prova generale del capolavoro che è già esso stesso un capolavoro, solo diverso.
Sono certamente 40’ intensi, psicologicamente drenanti, ma sorretti da un ritmo che non ti lascia mai troppo a meditare su quello che succede, e linee melodiche che non rendono mai l’ascolto difficile. Un album che per me sarà sempre indissolubilmente legato all’anno 1979, downtown New York con quel pattern antiscivolo della copertina che potevi trovare su ogni tombino, su ogni scala che penzolava sugli edifici post-industriali della Lower Manhattan. Mentre la disco finiva, il punk si tramutava in new wave, e avevi forte la sensazione che i Talking Heads sarebbero stati la band più importante del decennio successivo, quando Byrne avrebbe ampliato il formato e regalato – quel dicembre ’80, al Palasport – il più bel concerto (di una band) della mia vita. “Fear Of Music” annunciava tutto questo, la paura semmai era solo che la promessa non venisse mantenuta. Paura che sarebbe durata ben poco, a uno dei capolavori di tutti i tempi mancavano solo due anni.
Per chi non fosse convinto, questa è la prova: