Si è parlato così tanto dei Beatles, e per 60 anni, che uno tende a dimenticarsi il suono di quei dischi. O meglio, li dai per scontati, perché li hai ascoltati milioni di volte e ancora adesso si sentono un po’ tutti e un po’ dovunque. Ma se un giorno li riprendi, alzi lo stereo a un volume degno (diciamo quello che i vicini cominciano a battere sui muri o, nel mio caso, che i cani danno qualche segno di irrequietezza) e riparti daccapo, torna tutto in superficie. Come è stato, come sarà sempre, e come è giusto che sia.
Perché quei quattro ragazzi della working class di Liverpool hanno scritto più canzoni di rilievo di chiunque altro nella storia della musica, e la cosa pazzesca è che se le risenti hanno ancora la stessa eccitazione della prima volta. Le armonie vocali, a due o a tre, sono assolutamente incredibili, irresistibile perfezione che si spande nell’aria.
Le canzoni, da quelle semplici e orecchiabilissime degli inizi a quelle più complesse e sofisticate del secondo periodo, sono state però solo una parte del loro fenomeno. C’è in realtà molto di più. «Se vuoi saperne degli anni ‘60» ha detto Aaron Copland, uno dei più importanti e innovativi compositori classici americani del 20° secolo, «suona la musica dei Beatles».
Chiamiamolo lo spirito dei tempi. I Beatles nascono alla fine degli anni ‘50 in un’Inghilterra che lentamente cerca di rinascere dopo una guerra devastante, i crateri delle bombe ancora a punteggiare le maggiori città, Londra per prima. Con la loro energia, con il loro humour e ottimismo portano all’inizio un refolo, ma ben presto un uragano di positività prima a Liverpool, poi in tutta l’Inghilterra, e alla fine in tutto il pianeta.
George Martin, il loro geniale super-produttore c’aveva visto giusto all’audition in cui se li era trovati davanti: non impressionato dalla musica (nonostante la gavetta di Amburgo e del Cavern erano ancora oggettivamente acerbi), molto impressionato dalla loro energia, spirito, humour (finita la session, rimasero mezz’ora a ridere e scherzare). In altre parole: personalità.
Da quel momento, e per i successivi 7 anni (solo sette anni!), i Beatles hanno aperto al mondo – non solo quello musicale, of course – più porte e finestre dell’intero Buckingham Palace. Sono stati gli apripista che hanno permesso non solo ai ragazzi della loro età di sognare e appropriarsi di un mondo che gli era precluso, ma hanno inventato quasi tutto quello che c’era da inventare.
Hanno creato dal nulla un’industria, un mercato, una moda (più mode in verità, dai vestiti all’estetica baffi+barbe), l’idea di band, di sperimentatori sonori, lisergici, spirituali. Sono stati la metafora perfetta dell’amicizia e della rottura, della forza del gruppo e del talento individuale. Hanno pubblicato decine di singoli indimenticabili, hanno inventato il concept album e i primi videoclip, hanno dato nuova linfa ai musicarelli e hanno realizzato un film di animazione che rimane ancor oggi un capolavoro.
Oltre a plasmare prima e il beat e poi il classic rock hanno inciso dischi di avanguardia e di musica indiana, hanno fatto i produttori cinematografici e inventato il brand della mela che un altro genio avrebbe copiato. Hanno, in sintesi, fatto vedere in prima persona che non ci sono limiti se, insieme al talento, sai sfruttare come si deve quei due ingredienti fondamentali: la fantasia e il duro lavoro.
Insomma, sono stati unici, irripetibili, decisivi. Hanno dimostrato/messo in atto/ribadito che due o tre minuti di una canzone possono spostare montagne, cambiare la storia, creare un mondo nuovo. E nessuno si azzardi a dire il contrario, perché la Storia è lì a confermarlo.
I Beatles sono stati il mio primo amore musicale, quando a 12 anni ho fatto il salto dal mondo conosciuto, Rita Pavone e Gianni Morandi, al mondo di fuori. Mi sono fatto regalare quella manciata di primi singoli con le copertine a colori forti, ho acceso il motore insomma, e non l’ho più spento. Poi sarebbero arrivati gli Lp e tutto il resto, ma la mia strada comincia con “She Loves You”, “From Me To You” e “I Wanna Hold Your Hand”, e nel 1964 è stato un bell’andare, ve lo garantisco.
I Beatles sono stati, come tutti gli artisti prima e quelli che sarebbero venuti dopo, almeno per qualche anno, maestri di 45 giri. Fino ad allora la musica, qualsiasi tipo di musica, dal blues al jazz, dal r’n’r al pop, stava essenzialmente dentro quel formato. Vinile di 18 cm, un lato A e un lato B, se eri fortunato avevi un giradischi con quella pila al centro (gli inglesi, chissà perché, usavano solo l’asta e il buco era quello dei 33 giri) e li potevi sentire in serie. Se non ce l’avevi, c’erano i jukebox che erano il catalogo dei sogni, a volte da far luccicare gli occhi.
Per celebrare quell’epoca, e per fornire il contraltare alla “Big Hits” degli Stones, ho scelto una raccolta uscita anni dopo, ma che raggruppa i lati A dei loro singoli, quella con la copertina (il cosiddetto Red Album) scattata da Angus McBean alla EMI House di Londra, che da una parte è l’originale del primo Lp “Please Please Me”, con i quattro a 20 anni, e sul retro gli stessi meno di 10 anni dopo (e sembran passate non una ma due vite).
Stones e Beatles – con tutto il rispetto per Who, Kinks e tante altre band – sono stati il codice binario su cui si è sviluppata la musica inglese, simboli anche di due radici e due direzioni che a poco a poco son diventate sempre più divergenti. Ma se gli Stones sono davvero maturati e hanno preso un’identità definitiva verso la fine del decennio (e molto di più in quello successivo), i Beatles hanno prodotto nella prima metà della loro esistenza – dal tardo ’62 al ’66, appunto – una quantità di musica imparagonabile per quantità e qualità.
E se l’accordo con la Casa discografica era un album all’anno e tre-quattro singoli, si capisce la spinta che motivava Lennon e McCartney a scrivere in ogni momento utile: sugli autobus, nei camerini, in hotel, a casa. Non basta: nel suo “McCartney: The Lyrics”, Paul ricorda come il loro manager Brian Epstein, con l’ineffabile accento da classe alta, li chiamasse e gli dicesse «ragazzi, avete una settimana off, quindi scrivete il nuovo 33», e loro con entusiasmo ci dessero dentro. Una spettacolare fabbrica fordiana di hit.
I loro album, almeno fino a “Rubber Soul”, non son stati tutti preziosi dal primo all’ultimo brano, ma i singoli…! I singoli sì, anche perché una legge non scritta ma seguita con una certa costanza da loro, Epstein e Martin, era che i singoli non dovessero apparire sugli album, come se si levasse qualcosa a chi comprava il 33 (e i 45 avrebbero venduto di meno…).
Del resto, nel primo lustro dei ’60 il 33 giri non era ancora il prodotto finale per eccellenza. Da cui la necessità, per completare la collezione, dell’uscita di album come “Past Masters 1&2”, o “Magical Mistery Tour” che erano raccolte di singoli extra-Lp. Ma su questa raccolta (c’è n’è poi anche una seconda, il “Blue Album”, “The Beatles 1967-70”, con qualche singolo e molte tracce dai successivi Lp) di questi 45 c’è tutto il meglio (con svariati inserimenti di brani ‘da album’, da “Rubber Soul” in particolare), ed è un viaggio spaziale in una capsula del tempo orbitante intorno alla terra.
I brani sono 26 e in ordine cronologico. Si apre con quello che, a fatica, è stato il loro primo singolo. Perché quando George Martin se li trova in studio, prima nel giugno (con ancora Pete Best alla batteria) e poi il 4 e 11 settembre ’62 con Ringo, camicie bianche e cravatte (sottili) di ordinanza, non è che sia così sicuro che il primo 45 debba essere una loro canzone. Di brani in quei primi anni in cui sono stati insieme, da quel 6 luglio ’57 in cui Paul è andata su suggerimento di un amico comune ad ascoltare la band di skiffle di John Lennon alla festa pomeridiana alla St. Peter’s Church a Woolton, sobborgo di Liverpool, ne hanno scritti parecchi.
Anche se alcuni ricompariranno più in là, il gioco si è alzato. Questo in particolare l’ha scritto Paul, con il bridge, il ponte, di John, a Forthlin Road, casa McCartney.
In verità, Martin spinge per utilizzare una canzone scritta da un autore professionista, come era di moda allora, “How Do You Do It”. I quattro ci tengono invece ad esordire con la loro “Love Me Do”, ma sono nervosi e imbarazzati con le cuffie in testa: non hanno mai suonato in uno studio del genere, tecnici in camice bianco e tutto molto affettato, e per metterla giù impiegano 15 takes.
Poi c’è Ringo, il cui stile, come quello dei batteristi che verranno, non è convenzionale come richiesto dalle tecniche di incisione di allora. Ben presto tutto questo sarà sdoganato, ma Martin chiama un turnista, Andy White, il che dà origine a una serie di versioni diverse (con Ringo, senza, missato basso, etc). Ringo ci rimane male e con in pugno un tamburino, ma si va, e alla fine Martin intuisce che quel suono così semplice ma fresco ha qualcosa di diverso da tutto quello che c’è in giro.
E l’armonica di John funziona, mai sentita in un contesto del genere. Forse non rappresenta l’energia dei Beatles dal vivo, ma come scrive Ian McDonald in “Revolution of the Head” (la imperdibile bibbia per beatlesiani che racconta in dettaglio ogni canzone e avvenimento di quegli anni) per far capire quanto sia forte l’impatto alla radio, «si staglia come una spoglia parete di mattoni grezzi in un salotto inglese suburbano». Arriva al #17 praticamente senza promozione, per l’entusiasmo dei fan liverpooliani che presagiscono cosa stia per succedere.
Anche il secondo singolo deve passare il Martin-test, sempre convinto che il suo pezzo proposto sia quello giusto, «se no convincetemi». Fra le canzoni che propongono c’è “Please Please Me”, scritta da John nella sua cameretta a casa di zia Mimi ispirandosi a “Only The Lonely” di Roy Orbison e a un brano di Bing Crosby di cui gli piace il gioco di usare due volte nel titolo la parola please con due significati diversi, “per favore” e “soddisfare”.
Il brano però ha un andamento lento, un po’ blueseggiante, e Martin consiglia di lavorarci sopra e di velocizzarlo. Due mesi dopo si ripresentano ad Abbey Road, hanno aggiunto l’armonica in apertura e una finesse vocale di Paul copiata da “Cathy’s Clown” degli Everly Brothers, idoli assoluti di Paul e John: cioè tenere la sua tonalità molto alta mentre la melodia invece scala giù. Un overdub di armonica che raddoppia il riff di Harrison, e alla fine Martin dice dall’interfono in regia: «Congratulazioni, signori, avete appena inciso il vostro primo numero uno».
Il tecnico Norman Smith manda per scherzo una lacca anonima alla Decca, che li aveva bocciati una prima volta, per vedere se ci ricascano, ma il famigerato Dick Rowe (che poi metterà sotto contratto gli Stones) stavolta mangia la foglia. Brian Epstein, da un anno loro manager e stratega assoluto dei loro anni live, trova un editore, Dick James, il quale li propone per uno show della ITV, Thank Your Lucky Stars, il 12 gennaio 1963.
Durante uno degli inverni più rigidi della storia, i Beatles vanno in onda di fronte a tutta l’Inghilterra chiusa in casa e la macchina si mette in moto. Prima un tour come supporter di Helen Shapiro e poi uno proprio con Roy Orbison: prima che finiscano, per palese richiesta del pubblico, la loro presenza sarà upgradata da supporter a top bill.
A ruota arriva “From Me To You”, scritta sul bus del tour, il secondo di una stringa pazzesca di 17 #1 su 18 singoli. Anche qui un uso particolare del falsetto a due – copiato dai Four Seasons (quelli di “Beggin’’) – dimostra come sappiano raccogliere spunti e influenze e trasformarle in qualcosa di loro, e di inedito. È il primo brano che scrivono insieme, l’inizio di quella magica chimica che nei primissimi anni sarà il propellente principale: entrambi autori capaci, quando si mettono insieme –eyeballs to eyeballs, come definiranno lo scrivere guardandosi negli occhi – di creare il nuovo in una sorta di amichevole competizione per trovare soluzioni armoniche e di arrangiamento non scontate, innovative.
Su richiesta di Brian Epstein, interrompono il tour quando “Please Please Me” sta arrivando in cima per tornare a Londra e incidere il primo album. L’11 febbraio entrano ad Abbey Road e incidono tutti i brani di “Please Please Me” (con quelle due chicche di “I Saw Her Standing There” e “Twist and Shout”), in una storica session di tre turni di tre ore, più una di straordinario.
Rapporto impegno/risultato irripetibile. Primo posto per 30 settimane consecutive, soppiantato poi solo dal loro secondo album “With the Beatles” (copertina con i volti illuminati a metà scattata da Robert Freeman, ispirata da una sua foto a John Coltrane), che ci rimarrà per altre 21.
“She Loves You”, agosto ’63, è il turning point inglese, il momento in cui l’Inghilterra si innamora. La iniziano in un hotel dopo un concerto, la finiscono a casa McCartney: è in terza persona, botta e risposta fra il solista e il coro, con il padre – musicista in una ben conosciuta band locale – che, pipa in bocca davanti alla tv, dalla stanza adiacente esprime perplessità «non sarebbe meglio dire yes, yes yes? tutti questi americanismi rovineranno la lingua inglese». Ma quel Yeah Yeah Yeah è intuizione stellare, diventa il marchio di fabbrica, quasi un secondo nome per la band (40 anni dopo una indie band newyorkese si chiamerà davvero così).
Quando poi John suggerisce durante il falsetto di scuotere i capelli – quelli che Astrid, la fidanzata tedesca del primo bassista, Stuart Sutcliffe, aveva tagliato loro alla moptop ad Amburgo – è il delirio. “She Loves You” sarà il loro singolo più venduto di sempre in Inghilterra. È ufficialmente incominciata la beatlemania.
“I Want To Hold Your Hand” è il turning point mondiale. Nel frattempo si sono trasferiti a Londra, dove Brian Epstein ha affittato per loro un appartamento nel lussuoso quartiere di Mayfair, anche se Paul preferisce risiedere nella cameretta all’attico che la famiglia della sua neo-fidanzata, l’attrice di teatro Jane Asher, gli ha riservato: ritrova un’atmosfera di famiglia, «anche se erano high-class, non working-class come noi, con un’agenda piena da mattina a sera».
E ritrova la figura materna che gli è mancata a 14 anni in Margaret, nel cui basement, dove mamma Asher dava lezioni di oboe agli studenti del conservatorio, scriverà molte canzoni con John. C’è un ridisegno del Beatles-look: addio ai vestiti di cuoio da rockers (e pre-punk) di Amburgo e del Cavern, il manager li porta da Beno Dorn, il sarto polacco a Birkenhead, e vengono preparati quei vestiti-uniforme che (almeno dal vivo) li contraddistingueranno per diversi anni.
L’obiettivo è quello di renderli stilosi, immediatamente riconoscibili, accessibili, per tutti. Il che non vuol dire renderli sterili, tutt’altro. Nel suo “Lyrics” Paul dice chiaramente come il fattore erotico fosse alla base di tutto, sia per loro che per le loro fan. “Voglio tenerti la mano, aperta parentesi: ma in realtà molto di più”. Fidanzati, sposati o meno, non si faranno mancare nulla.
Il 45 è il primo million-seller, il loro press agent Tony Barrow in un comunicato li chiama «the fabulous foursome», da cui il nickname di fab four. Il dj americano di una radio di Washington ne importa una copia, le altre stazioni radio lo registrano, parte la valanga americana. Incredibilmente, fino a quel momento gli Stati Uniti li hanno ignorati, la filiale americana della EMI, la Capitol, non s’è fidata, i primi singoli sono stati pubblicati appena, su etichette minori.
Ma quando i Beatles atterrano a New York il 7 febbraio 1964 in mezzo a cinquemila fan in delirio, il mondo cambia. Due giorni dopo, il debutto all’Ed Sullivan Show – primo brano “All My Loving”, dal secondo Lp – ha il 34%, circa 73 milioni, di americani di fronte al televisore, la Nielsen certifica «lo show tv più visto di tutti i tempi».
Viene scritto, ed è opinione diffusa, che la velocità con cui il fenomeno esplode negli Stati Uniti abbia a che fare con il momento storico del Paese: nel novembre del 1963 l’assassinio di John Kennedy ha lasciato la nazione in uno stato di shock e di pessimismo, e i Beatles hanno riacceso, soprattutto nei giovani, un senso di eccitazione e di speranza nel futuro che sembravano svanite, dando il via al periodo di cambiamenti rivoluzionari che caratterizzeranno gli anni ‘60.
L’impronta dei Beatles sul decennio sarà fortissima: quando la loro popolarità uscirà dall’asse anglo-americano e pervaderà il pianeta, diventeranno il simbolo delle nuove generazioni svincolate dalla precedente, creando un mercato, riferimenti culturali e comportamenti nuovi. La Swingin’ London diffonderà mode e arte contemporanea e letteratura e cinema, Londra diventerà l’ombelico del mondo, mèta preferita per tutti i ragazzi europei, e non solo, in cerca del mondo nuovo.
I Beatles sono la scintilla che fa nascere tutto questo, e almeno fino alla fine della decade ne saranno al centro.
Nell’estate del ’64 è fondamentale per lo sviluppo della cultura giovanile anche l’incontro con Dylan, nell’Hotel Delmonico a New York, in cui per così dire si aprono le porte della percezione: per la prima volta si fanno uno spinello e, come dice Paul, «la mente si è improvvisamente aperta».
Non solo questo, l’influenza reciproca è fortissima: i Beatles capiscono come i loro testi, che fino ad allora erano fondamentalmente solo funzionali al suono, al mood delle canzoni, possano aspirare a un innalzamento di livello. Dylan capisce che quel suono elettrico può aprire un nuovo orizzonte nella sua musica e nel suo pubblico, e vira la barra nel suo successivo “Bringing It All Back Home”.
In più, i loro due pubblici, i ragazzi dei college e gli intellettuali che seguono Dylan e i teenager che impazziscono per i Beatles, annota il loro biografo Jonathan Gould, si fondono in quello che sarà il popolo del rock e della controcultura. Nel tour del ’64 i Beatles prendono anche posizione contro la segregazione fra bianchi e neri nei loro concerti, rifiutandosi di suonare, o di alloggiare in alberghi, dove gli afro-americani siano discriminati.
Nel ’64 per i Beatles si aprono le porte del cinema, con un musicarello (come abbiamo chiamato in Italia i film musicali del periodo) top class, una comedy in musica che racconta 48 ore nella vita della band, e l’album omonimo che ne nasce, “A Hard Days’ Night”, è anche il primo con canzoni totalmente loro. A George viene offerta dalla Rickenbaker la chitarra elettrica a dodici corde con quel ringing sound che lo caratterizzerà, e influenzerà la band americana che sarà – insieme ai Beach Boys nella ricerca musicale – la loro controparte, i Byrds.
“Can’t Buy Me Love”, “And I Love Her” e la title track (che fa da colonna sonora alla celebre scena in cui vengono inseguiti dalle fan urlanti) vengono da qui.
L’album successivo, sempre 1964, è “Beatles For Sale” e nonostante gli sia molto affezionato (il mio primo album dei Beatles, probabilmente il primo in assoluto), è un album discontinuo: lo stress comincia a farsi sentire e ne risente anche la scrittura, con tutti gli impegni si fa fatica a scriverne così tante ogni anno (in aggiunta ai singoli).
Molte cover ancora una volta, il suono delle loro canzoni è un po’ più acustico, non ci sono brani memorabili anche se ce ne sono diversi belli (“No Reply”, “I’m A Loser”, “I’ll Follow the Sun”, scritta da Paul ai tempi di Amburgo). La prescelta per questa raccolta è “Eight Days A Week”, l’unico singolo (il settimo #1 americano in un anno!), che darà anche il nome al magistrale film-doc di Ron Howard.
Il titolo nasce da una battuta dell’autista che porta McCartney a casa Lennon quando la patente gli è stata sospesa per alta velocità, «si lavora duro, otto giorni a settimana…». Primo brano in assoluto a cominciare con una dissolvenza. Così come “I Feel Fine”, solito singolo a sé stante, è il primo brano in cui si usa su disco il feedback distorto della chitarra di John, prima che parta quel riff che lui e George mantengono praticamente per tutto il brano.
Il secondo film arriva nel ’65, ed è una parodia del classico film alla James Bond, in cui i cattivi tentano di impadronirsi dell’anello di Ringo. «Il film non aveva né capo né coda e pensavamo ad altro, ma ci portavano in ogni luogo che dicevamo: chi era mai stato alle Bahamas, o sulle Alpi austriache?, e ne abbiamo approfittato». Apre l’album “Help!”, quella che John ha definito «un grido subconscio di aiuto, dopo che il successo dei Beatles era diventato qualcosa al di là di ogni comprensione».
Non è la prima volta che la corazza emotiva di John si incrina (era già successo con “I’m A Loser”), lui che da giovane era sempre stato il bullo, il duro, e andando avanti sempre il più sarcastico, cinico. Ian McDonald scrive: «John definiva il periodo “quello da fat Elvis, da Elvis ciccione”, esaurito mentalmente da due anni di tour incessanti, isolato nella sua nuova magione fuori Londra, il suo matrimonio danneggiato da un giro orgiastico di groupies e prostitute, senza sentirsi supportato dalla devota moglie Cynthia, che preoccupata per le sue condizioni non approvava il suo uso di droghe».
L’invocazione ha un che di dannatamente urgente:
«Aiutami se puoi, mi sento giù
E apprezzo che tu sia da queste parti
Aiutami a rimettere i piedi per terra
Mi aiuteresti per favore?
Ora la mia vita è cambiata così tanto
La mia indipendenza sembra svanire nella foschia
Ogni tanto mi sento così insicuro
So che ho bisogno di te
Come non l’ho mai avuto prima».
Ci sono qui altre canzoni dal film, la prima totalmente acustica, “You’ve Got To Hide Your Love Away”, sulla scia di Dylan di cui John ha preso anche la maniera di cantare un po’ piatta e nasale, con tono amaro; e “Yesterday”, la prima ad avere un accompagnamento “classico” di un quartetto d’archi, partitura di Martin, interpretata – prima e ultima volta – da uno solo di loro.
La storia è rinomata: a Paul arriva in sogno, si sveglia con la melodia completa già in testa, chiedendosi se è qualcosa di Cole Porter, o di Fred Astaire. Si alza, va al pianoforte verticale nella sua cameretta nell’attico a Winpole Street, butta lì un testo-riempitivo sulle uova strapazzate. La mattina stessa chiede a John se la conosce, «non lo so, mai sentita», ma l’idea che sia qualcosa ascoltato e immagazzinato nel suo inconscio non lo molla, e per mesi lo chiede a chiunque.
La sviluppa durante le riprese del film e si rifiuta di pubblicarla come singolo in Gran Bretagna, «eravamo una r’n’r band» e dà l’ok per gli Stati Uniti.
In “Lyrics” riflette sul testo, su come quel «sono la metà dell’uomo che ero» a 21 anni suoni effettivamente strano, e su come “why she had to go I don’t know, she wouldn’t say”, “perché se ne è andata io non so, non ha voluto dirlo”, forse non è riferita a una storia d’amore, ma nel suo subconscio è un ricordo della adorata mamma Mary morta di cancro a 14 anni: «Me l’hanno spesso suggerito, ho sempre detto di no, ma è possibile. In famiglia a malapena sapevamo cosa fosse il cancro, non ne abbiamo parlato, ma non mi sorprenderebbe che questa esperienza sia venuta fuori in una canzone dove la dolcezza compete con un dolore che non riesci a descrivere».
In tutti i casi, è il brano votato “canzone del secolo” alla Bbc e a Rolling Stone, e quello con più cover nella storia, 2200. Paul apprezza in particolare quella di Marvin Gaye.
Ci sono due singoli che, as usual, escono per lanciare i due album sui quale non compaiono. “Ticket To Ride”, primo singolo a rompere la barriera dei tre minuti, è quasi un’anomalia per i Beatles. La stessa frase iniziale ripetuta quasi per tutto il brano, la chitarra con eco che procede circolare salvo poi un brevissimo assolo acido, un suono così potente da essere quasi distorto, l’originalissimo pattern ritmico e le rullate sottostanti sui tom di Ringo: apre la strada verso produzioni più rock, che procedono di pari passo con tutta la scena inglese, dagli Yardbirds ai Kinks agli Who.
Si sta uscendo dalla fase del beat per entrare in territori sonori nuovi. Quel sottofondo dronico che accompagna il brano e lo rende così denso è un’anticipazione del suono di “Tomorrow Never Knows”, che apparirà su “Revolver” 18 mesi dopo.
Il successivo è il primo a “doppia facciata A”, “We Can Work It Out”/“Day Tripper”: John spinge per il secondo, decisamente più rock, con un gran riff di chitarra e un tempo raddoppiato batteria/tamburello di Ringo che spinge alla grande. Ma la casa discografica, il pubblico e le radio vanno per il primo, un instant seller per il quale viene girato quello che si può considerare il primo videoclip della storia.
Il brano ha un testo base di Paul che riflette sulle difficoltà del suo legame con Jane Asher, ragazza amante della privacy, autonoma, che vuol continuare la sua carriera di attrice teatrale (e che Paul tradisce spesso). Ma John aggiunge tutto il bridge interno, dove suona un harmonium da Esercito della Salvezza, ed è un ritorno alla loro collaborazione 50/50, come all’inizio.
Stevie Wonder ne farà una delle migliori cover beatlesiane di sempre, funky as hell.
Passano soli quattro mesi fra “Help!” e “Rubber Soul”, con la bellissima foto di Robert Freeman con l’immagine allungata e titolo dilatato che prefigura la grafica psichedelica del ’67, e per la prima volta nessun nome sulla copertina, quelle quattro facce ormai le riconosce chiunque in qualsiasi parte del mondo.
In mezzo, il secondo tour americano con il celebre concerto allo Shea Stadium di New York (record allora, 55,600 fan urlanti, come da film). Siamo già oltre i limiti dell’isteria, ma quando nell’estate successiva il fanatismo diventerà insostenibile e la loro ambizione sonora maturata in studio si scontrerà con i limiti tecnici dell’amplificazione e degli strumenti, chiameranno la fine delle loro apparizioni dal vivo, e si entrerà nella seconda fase della carriera.
“The Beatles 1962-66” a questo punto perde un po’ il senso di raccolta di singoli, e prosegue con sei brani da “Rubber Soul”, il disco della vera svolta dei Beatles, quello in cui arriva un suono, una visione – non solo musicale ma anche dei testi – totalmente nuova rispetto al passato.
È il passaggio alla maggiore età, l’abbandono delle canzoni orecchiabili e (sia pur a livello altissimo) fatte in serie, e l’ingresso in una scrittura più sensibile, tenendo sempre conto del fatto che i Beatles, nel 1965, hanno dai 22 ai 25 anni. John lo chiama the pot album, nel senso che la scoperta (intensiva) della marijuana ha decisamente cambiato a tutti i livelli la loro direzione personale e compositiva.
Il rock duro di “Drive My Car” (e, sull’album, di “The Word” e “I’m Looking Through You”) sono il contraltare a momenti più intimisti, acustici: i due singoli-su-album sono gli unplugged “Michelle”, francesismo di Paul col sapore esistenzialista da Rive Gauche che mi è sempre sembrata eccessivamente sdolcinata in confronto alla “Girl” di John, più introspettiva, dolceamara, quasi da sottomesso al fascino della ragazza che lo maltratta (ma anche questa è una novità); il misto-valzer di “Norwegian Wood”, dove John confessa e mimetizza una relazione con la ragazza (bird in inglese) che è volata via, primo assaggio della passione di George per il sitar, frutto dell’incontro con Ravi Shankar.
Altri due gioiellini di Lennon sono “Nowhere Man”, in cui l’uomo comune, «che non sta da nessuna parte, che vive in una terra di nessuno e non sa dove andare» è raccontato, invece che con il sarcasmo tagliente che ti aspetteresti, con dolcezza quasi malinconica; e “In My Life”, sempre citato come uno dei brani più significativi dei Beatles:
«Ci sono posti che ricorderò tutta la vita
Anche se alcuni sono cambiati, e non per il meglio
Alcuni sono spariti e altri rimasti
Tutti questi posti hanno avuto i loro momenti
Con amanti e amici che posso ricordare
Alcuni sono morti e altri vivi
Nella mia vita li ho amati tutti…».
…una riflessione sulla vita che denota maturità, e sembra una premonizione dell’arrivo nella sua vita di una fase nuova, quando chiude il tutto con «mi fermerò spesso a pensarli, ma nella mia vita (ora) amo te di più». Yoko Ono sarebbe arrivata l’anno successivo.
Chiudiamo con “Paperback Writer”, solito singolo-extra-album, armonie vocali ancora una volta strepitose, basso e batteria che picchiano duro sotto un riff che accompagna tutto il brano per un testo che Paul da appassionato di letteratura dedica al suo amore per i negozi di libri e gli scrittori. Sul retro del 45 (non presente qui, ma su “Past Masters”) un altro brano potente, “Rain”, che è un perfetto esempio della psichedelìa che sta trasformando i suoni della scena rock inglese.
“Yellow Submarine” ed “Eleanor Rigby”, il divertissement e il capolavoro, chiudono “The Beatles 1962-66”, ma fanno parte di “Revolver” e ne parleremo più a fondo un’altra volta.
Se si guarda la big picture di questa corsa a perdifiato di soli tre anni e mezzo, che inizia con le anfetamine per sostenere le esibizioni notturne a raffica di Amburgo e termina con la scoperta dell’Lsd, c’è da rimanere davvero stupefatti. C’è una evoluzione che davvero è una fotografia del primo lustro degli anni ‘60, sia in termini artistici che tecnologici.
In musica si passa dalla creazione istantanea a quella estremamente curata, dal 45 al 33 giri, e nelle registrazioni, per la prima volta in “Rubber Soul”, si va oltre il classico 4 Piste (e il missaggio in mono) e si usano due macchine, pre-missando e spostando le tracce sulla seconda per far spazio alle sovraincisioni di altri strumenti e voci. Altro che le 8, 16, 32, 64 piste che sarebbero venute dopo.
Viaggio accompagnato dalla presenza fedele e fidata di George Martin e del tecnico del suono di Abbey Road Norman Smith: all’inizio la visione di Martin è stata di grande flessibilità, non imponendo il suo punto di vista ma lasciando fluire le idee e assecondando con i giusti suggerimenti la genialità intuitiva di Paul e John. Successivamente si è dimostrato un partner in grado di esaltare le sequenze di accordi strane e gli arrangiamenti inusuali – oltre alle innovazioni tecnologiche – per aggiungere al mix idee su idee. E ancor di più lo farà negli album successivi.
Infine, parte del successo dei Beatles è stata la capacità straordinaria non solo di fare proprie le intuizioni musicali migliori che sentivano in giro, ma anche di cogliere al volo espressioni e cose di vita quotidiana intorno a loro e trasformarle in titoli, frasi, espressioni che diventavano parte della cultura pop contemporanea.
Semplicemente, al di là dei gusti personali, il gruppo più importante della Storia, quello che ha reso la musica pop una forma d’arte. John, Paul, George, Ringo: grazie di essere esistiti.