Abeba è il nome di una giovane donna etiope che, incinta, è stata fermata dai militari del suo stesso stato, derubata del cibo che portava con sé, e poi allontanata da un checkpoint militare. Cacciata nonostante fosse sul punto di dare alla luce suo figlio. Una volta raggiunta di nuovo, a fatica, la propria abitazione è riuscita a partorire e poche ore dopo, raccolte le forze, ha iniziato un cammino durato 12 giorni per trovare aiuto. La sua storia, raccontata per la prima volta dai giornalisti di Associated Press presenti proprio in territorio etiope, nella regione del Tigrè, ha un lieto fine: Abeba è sopravvissuta e, fortunatamente, anche suo figlio, Tigsti.
Per completezza bisogna aggiungere, però, che il corpo del piccolo Tigsti presenta segni evidenti da malnutrizione. Quando è stato visto dai giornalisti di Ap aveva solo 20 giorni, eppure era già sottopeso, con le gambe magre e secche e dava pochi segni di vita. Un dramma come questo, anche fosse solo uno, è degno della nostra più accesa preoccupazione. Ma purtroppo non è solo uno: il punto è proprio che la storia di Abeba è quella di milioni di persone nel nord dell’Etiopia.
Fino a pochi anni fa l’Etiopia – il più grande e influente Paese del Corno d’Africa – veniva descritta come uno stato destinato a un rapidissimo miglioramento delle condizioni sociali ed economiche. Finalmente, nel 2018, era cessata la guerra con l’Eritrea, che sembrava non dovesse finire mai. Il nuovo premier Abiy Ahmed aveva ricevuto, proprio in nome della fine del conflitto, il Premio Nobel per la Pace e Addis Abeba, la capitale etiope, sembrava proiettata verso uno sviluppo economico senza precedenti.
Il settore del tessile, per esempio, secondo le previsioni avrebbe dovuto godere di investimenti milionari che avrebbero reso la città nel breve periodo un nuovo hub produttivo e manifatturiero, soprattutto per le aziende europee. Poi, però, i piani del governo di Abiy, che prevedevano un’unificazione nazionale e una trasformazione del Paese da federale a centralista, hanno portato a una guerra interna, quella contro i tigrini, a nord, cioè contro quella che storicamente è una delle minoranze etniche più influenti e rappresentate nelle istituzioni etiopi. Una breve «operazione di polizia», così l’aveva annunciata il governo, mentre tagliava le vie di comunicazione, bloccava internet, cacciava le ong e gli stranieri dal Tigrè e usava l’aviazione per distruggerne le infrastrutture. Come spesso succede in questi casi a posteriori abbiamo visto che non era un’operazione di polizia, né tantomeno era breve.
In seno a questo nuovo conflitto armato, interno a uno stato che ha il doppio degli abitanti dell’Italia, la fame, come dimostra la storia di Abeba, è diventata un’arma di guerra. Il logoramento è la cifra che contraddistingue molti conflitti contemporanei: se non si riesce a sconfiggere completamente il nemico si trovano strategie, vecchie o nuove poco importa, per piegarne le volontà. L’esercito federale (insieme a diverse altre milizie suddivise su base etnica che per motivi storici competono con i tigrini per il controllo del nord del Paese) ha fatto presto a occupare il Tigrè. Prima l’aviazione, poi alcune incursioni sostenute, da nord, dall’esercito eritreo, nuovo alleato di Addis Abeba e così, nel giro di pochi giorni, il premier e gli alti ufficiali militari etiopi hanno potuto sostenere pubblicamente che il Tplf (sigla da “Tigray people’s liberation front” che è sia un partito politico che una forza militare semi-indipendente) era sconfitto e l’«operazione di polizia» conclusa. Era falso. Il Tplf, in territorio tigrino, aveva semplicemente ripiegato sulle montagne. Qui è iniziata la fase più cruenta della guerra civile etiope: se i tigrini erano impossibili da battere definitivamente in campo aperto allora si è optato per fare quello che in Etiopia è già successo in passato, innescare una carestia.
La sofferenza della popolazione civile è un’arma: mette in cattiva luce le forze che quella regione la gestiscono. Così, chi si era rifugiato nelle alture tigrine, come i comandanti e i militari, ha ricevuto, tra le righe, un messaggio che più o meno suona così: vedi cosa hai fatto, a non arrenderti. Vedi che sei tu che ci costringi a tagliare i vivere alla tua stessa gente?
Gli Stati Uniti hanno parlato dell’azione del governo federale etiope in Tigrè come di una «pulizia etnica». Le Nazioni Unite hanno messo nero su bianco che si tratta della peggior carestia al mondo, e della peggiore in assoluto nell’ultimo decennio. Ciò che va notato però, oltre alla crisi umanitaria, è l’uso della carestia come arma di guerra.
Kibrom Gebreselassie, direttore del personale medico all’ospedale Ayder Referral di Macallè (il capoluogo del Tigrè) ha detto agli stessi giornalisti dell’Ap che nella struttura «la maggior parte dei bambini malnutriti muore”. Per poi aggiungere che “questa è solo la punta dell’iceberg».
Indurre una carestia non è qualcosa che avviene per caso, e nemmeno che si ottiene facilmente. Servono alcune condizioni ben precise. Innanzitutto una porzione di territorio con risorse limitate e con infrastrutture di accesso (strade, porti e aeroporti) che è possibile bloccare all’unisono. Il Tigrè rientra in questa descrizione. A nord c’è l’Eritrea, alleata del governo etiope e storicamente acerrima nemica dei tigrini. A sud c’è il resto del Paese, controllato per l’appunto dalle forze dell’esercito federale e dalle milizie alleate. L’unica via di accesso per gli aiuti, quindi, sarebbe a ovest, cioè la manciata di chilometri di confine con il Sudan, ma è stata bloccata molto velocemente. Così i tigrini – i militari come i civili, oltre sei milioni di persone in tutto – sono rimasti in trappola.
Diverse testimonianze raccontano di come la carestia sia stata accelerata impedendo, di fatto, che le persone nel nord dell’Etiopia trovassero di che sfamarsi. C’è chi, quando è stato sorpreso a coltivare la propria terra, è stato passato per le armi sul posto. Un agricoltore tigrino, di nome Teklemariam Gebremichael, è sopravvissuto ai colpi dei soldati eritrei, ma non sono sopravvissute le sue mucche, uccise di proposito. Un altro agricoltore, Gebremariam Hadush, ha detto di aver scelto di continuare a coltivare, ma consapevole del rischio. A questi episodi si aggiungono diverse altre azioni con lo stesso obiettivo: voli interrotti, strade bloccate, convogli con cibo e aiuti fermati e altri rimandati indietro.
Chi ha memoria della carestia che colpì l’Etiopia negli anni Ottanta, quella in cui morirono oltre un milione di civili, sa che da queste parti l’arma della carestia non è una novità. Ai tempi, però, un servizio televisivo della Bbc (che ancora oggi si trova su YouTube) riuscì a catturare l’attenzione di noi occidentali e fare in modo che, finalmente, la popolazione di quella regione avesse accesso agli aiuti umanitari provenienti proprio dall’ovest del mondo. Le parole del giornalista Michael Buerk, insieme alle immagini del cameraman Mohammed Amin, funzionarono. Oggi, nonostante internet e i social, non è successo lo stesso. Gli appelli degli Stati Uniti sono serviti a poco.
L’Italia, intanto, ha sospeso la cooperazione militare con l’Etiopia. Decisioni doverose, ma a poco serviranno se, come sembra, il governo di Addis Abeba trova protezione e sostegno altrove. Come ha notato Kjetil Tronvoll, esperto di conflitti nel Corno d’Africa, «il governo etiope sente che può fare a meno dell’occidente» e che può ottenere facilmente «protezione politica dalla Russia e dalla Cina».