Cosa accomuna Winston Churchill e Boris Johnson? Entrambi hanno governato sotto il regno di Elisabetta II, che il 6 febbraio festeggia il «giubileo di platino», cioè settant’anni sul trono. È la prima sovrana inglese a riuscirci, dal 2015 era già quella più longeva. Nel frattempo, a Downing Street sono passati quattordici primi ministri e alla Casa Bianca quattordici presidenti, ma vi risparmiamo il numero dei diversi presidenti del Consiglio italiani (più di trenta, senza contare rimpasti e bis vari però).
Appartiene a un casato, gli Windsor, che è una dinastia tedesca, della Sassonia, al potere oltremanica dopo gli Hannover della regina Vittoria. Il motto, Dieu et mon droit, è ancora in francese e, in effetti, ad adottarlo è stato sei secoli fa Enrico V, che aveva conteso il trono di Francia. Ma i legami della storia sono solo alcuni dei motivi che fanno di Elisabetta l’ultima regina europea. Non per la biografia, come sarebbe stato invece per il suo compagno di una vita, Filippo di Grecia e Danimarca, nato a Corfù, nel mar Ionio.
Elisabetta è più vecchia anche dell’Europa, almeno di quella unita. Era già in carica, da febbraio, quando nel 1952 venne siglato, ma non da Londra, il trattato di Parigi con cui viene fondata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Lo era, ovviamente, anche cinque anni dopo, quando col trattato di Roma è nata la Comunità economica europea (Cee), antenata dell’Ue di oggi, nella quale il Regno Unito entrerà nel 1973, dopo due veti (nel 1963 e nel 1967) della Francia di Charles de Gaulle.
Dopo Maastricht, ha fatto in tempo anche a vedere il suo paese votare l’addio a quella famiglia. Un’uscita che è avvenuta a gennaio 2020, subito prima della pandemia. Se il referendum del 2016 – passato per un soffio, contro due delle quattro nazioni che compongono il Regno Unito – ha spaccato l’opinione pubblica, su una cosa i cittadini sono rimasti concordi: la loro condizione di «sudditi». Più di tre quarti di loro era ed è a favore della monarchia, nove su dieci ne approvano l’operato. Questo tipo di dati sono rimasti stabili nel tempo, con una costanza rara per altri capi di Stato.
Non è stata una regina interventista, la tenuta si spiega anche così. Scriverlo oggi suona scontato, ma lo stile che incarna da più di settant’anni ha creato uno standard per i successori. È fantapolitica immaginare cosa pensi della Brexit una donna di soft power più che di potere, che non rilascia interviste fuori dai documentari e centellina i discorsi, per far parlare i silenzi. Ha fatto un’eccezione nell’aprile 2020, quando in tv ha incoraggiato la nazione a resistere, nella migliore tradizione British.
Ha resistito, stoica e solitaria, anche al funerale di Filippo. Lo prescrivevano le regole anti-contagio, le ha rispettate. In quell’esempio c’è una dignità che rende ancora più inaccettabili gli scandali dei conservatori, con le feste nei palazzi governativi in pieno lockdown, persino la sera prima del lutto nazionale. A lei, e non all’élite politica, ha guardato la gente per aggrapparsi alla sacralità delle istituzioni: un’àncora, in questi anni convulsi, persino per i pochi chi sognano una repubblica, figuriamoci una in mano ai populisti.
Alla fine dell’estate 2019, l’opposizione sperava fermasse l’azzardo di Johnson di chiudere il parlamento per quattro settimane. Non avrebbe potuto. Manca una costituzione, ma il protocollo prevede solo ruoli cerimoniali. Un re non licenzia un primo ministro dal 1834. A Guglielmo IV non andò benissimo: cacciò William Lamb nel 1834, preferendogli Robert Peel che, sfiduciato a Westminster, venne sconfitto subito dopo alle elezioni dallo stesso Lamb.
Some people say the hat Queen Elizabeth II wore to her Parliament speech bore striking similarities to the EU flag https://t.co/jrWU28l2hT pic.twitter.com/Cquy4g3ssK
— CNN (@CNN) June 21, 2017
La regina non ha voce in capitolo neppure sul «Queen’s Speech», si deve limitare a recitare il testo preparato dall’esecutivo sulle priorità del mandato, se appena insediato, o dell’anno. Nel 2017, all’epoca di Theresa May, lo ha fatto con un outfit che sembrava un messaggio: blu, con un cappello dove risaltavano cinque fiori gialli, una specie di richiamo – almeno cromatico – alla bandiera dell’unione abbandonata da Londra. Quasi una conferma postuma a quanto disse nel 1988 a un incontro con diplomatici tedeschi: «Senza dubbio, il futuro della Gran Bretagna si trova nell’Europa». Il linguaggio in codice le sarà attribuito anche in visita negli Stati Uniti dal presidente Donald Trump: in bella vista una spilla donatale dagli Obama.
Nel 2019, di fronte al parlamento Elisabetta indosserà la corona di rito. La «svolta» al Women’s Institute di Norfolk, dove invocherà l’unità nazionale e il rispetto per le opinioni diverse dalle proprie. La prudenza è inevitabile dopo le critiche del 2014, quando fuori da una messa nell’Aberdeenshire le era sfuggito un «Spero che le persone pensino molto attentamente al loro futuro», alla vigilia del referendum d’indipendenza della Scozia. Secondo la biografia di David Cameron, premier del tempo, non è stata una sbandata unionista, ma un tentativo di influenzare il voto.
Ogni mercoledì, a Buckingham Palace, la regina continua a incontrarsi con il primo ministro, come da tradizione. Fino allo scorso giugno, durante le varie ondate della pandemia, le conversazioni si sono spostate al telefono. Ha fama di essere un’interlocutrice a cui si può dire di tutto, secondo il laburista Gordon Brown. In un documentario, lei asseriva: «Sanno che devi essere imparziale, bisogna fare un po’ da spugna». L’ultimo inquilino, chissà quanto a lungo, di Downing Street si è dovuto scusare pubblicamente con lei per il partygate.
Per ringraziarla, Johnson propone di istituire un giorno di festa a partire dal 2023. Non una «bank holiday», come vengono chiamate le vacanze, ma una «thank holiday». Saprebbe di imbalsamazione in vita, chissà se lei è scaramantica. Regina di altre quattordici nazioni – erano quindici finché le Barbados non sono diventate una repubblica, lo scorso autunno –, altri due anni e batterà anche Luigi XIV, il «Re Sole», sul trono per 72 anni. Il governo ha studiato nei minimi dettagli il protocollo per la morte della sovrana, l’operazione London Bridge. Ma sul futuro nessuno sa fare calcoli.
Gli armadi delle case regnanti sono pieni di scheletri: anche quelli degli Windsor lo sono, tra lady Diana e le accuse di razzismo seguite alla «Megxit». Più di un souvenir per turisti, però Elisabetta II è uno di quei pezzi di storia del Novecento arrivati intatti nel nuovo millennio: uno di quelli a cui ci si affeziona, sulla cui «immortalità» si scherza con una punta di timore. Settant’anni sono tanti per la vita di una persona, figuriamoci per una nazione. In questo caso, coincidono.