Di solito, una festa è rovinata quando interviene la polizia. In questo caso, la polizia è arrivata un anno e mezzo dopo. Sotto indagine c’è Downing Street, centro di potere del governo conservatore travolto dal partygate. Ad alcune di quelle serate il primo ministro neppure c’era, ma passa l’immagine di un’élite – cioè il contrario di ciò che la nuova classe dirigente dei Tories prometteva di essere – incapace di rispettare le regole e i sacrifici chiesti a un Paese in lockdown.
La rilevanza penale dall’inchiesta aperta della polizia metropolitana di Londra è scarsa: al massimo, Boris Johnson rischia una multa. Il suo effetto politico, invece, è già una sentenza.
La Metropolitan Police (Met) indagherà sulle violazioni delle restrizioni anti-contagio avvenute nella residenza del premier e, più in generale, a Whitehall, la zona dove hanno sede i principali ministri. Non su tutti i 17 episodi accertati finora, ma su quelli più seri, circa la metà.
Johnson ha promesso di cooperare con le forze dell’ordine: poche ore prima dell’annuncio, sulle prime pagine dei giornali inglesi c’era un altro scandalo, per la festa di compleanno organizzata a sorpresa dalla moglie Carrie nel giugno 2020. Trenta i presenti. L’ennesima violazione dei protocolli sanitari, con lo stato maggiore del partito costretto alle solite dichiarazioni surreali, come «una torta e Happy Birthday cantata in ufficio non costituiscono un party di compleanno», per la fedelissima Nadine Dorries, titolare della Cultura.
Il coinvolgimento di Scotland Yard in questa storia è un danno alla credibilità del governo Johnson, qualora ne sia rimasta, e aggiunge, soprattutto all’estero, una patina «criminale» che in realtà non ha: si tratta di illeciti civili, nessuno finirà in prigione.
Non è mai una buona notizia quando un premier deve riferire alla polizia, il primo e l’ultimo è stato il laburista Tony Blair, ma da testimone per una presunta compravendita di onorificenze tra il 2006 e il 2007. Il caso di Johnson è diverso: è coinvolto personalmente, sia – e ancora non è noto – se le feste contestate fossero quelle a cui ha partecipato sia, per omessa vigilanza, qualora fosse all’oscuro di tutto. La sua linea è la seconda, sostiene di non aver violato alcuna norma, anche se le scale del suo appartamento passano dalla sala dove si è tenuto il brindisi di Natale che ha aperto la serie di scandali.
Il dato politico, però, è un altro. Le indagini cambiano le tempistiche un po’ di tutti. Se sono partite, significa che Sue Gray, la funzionaria incaricata di investigare dall’esecutivo, ha riscontrato condotte potenzialmente illecite e le ha riferite alla polizia. La durata si misurerà in settimane, se non mesi: non più i giorni che mancavano alla pubblicazione del rapporto di Gray, e questo scompagina il calendario di chi vuole la testa di Johnson.
Molti deputati conservatori, infatti, aspettavano quel documento – ora congelato, ma potrebbe uscire lo stesso a breve – per firmare la sfiducia al primo ministro, poco disposto a dimettersi da solo, qualcosa che nel suo universo simbolico equivarrebbe a una resa.
È determinato a lottare, ma si complica anche la sua strategia difensiva. Paradossalmente, l’inchiesta potrebbe permettere a Johnson di comprare tempo di fronte alla congiura interna. Al tempo stesso, però, allontana gli esiti dal suo controllo. Nonostante la fama di stroncatrice di carriere, Gray è una figura pubblica, nominata dal governo, cui deve riferire, con un’autorevolezza soprattutto «etica»: una coerenza valoriale sulla quale Johnson, malgrado gli studi classici, non ha certo costruito la carriera. Puntava a scusarsi più sentitamente, poi un rimpasto di gabinetto. Adesso un organico già screditato rischia di restare al suo posto in attesa delle indagini, mentre vengono scandagliati messaggi privati ed e-mail, oltre a quelli che l’ex alleato Dominic Cummings ha già fatto filtrare alla stampa.
Se a contraddire il premier sarà la polizia, la sua posizione sarà ancora più debole. La sua apologia – nessuno ha violato la legge – cadrebbe. Anche se venisse “assolto”, potrebbe essere costretto comunque alle dimissioni: lo richiede il codice ministeriale, se il primo ministro ha sviato intenzionalmente il parlamento.
Difficile non interpretarla così, se risultasse falso quanto giura fin dall’inizio. Sarebbe troppo persino per Johnson, che con la verità ha sempre avuto un rapporto conflittuale. Non a caso, il leader laburista Keir Starmer, da ex avvocato, ha usato il question time in aula per “interrogarlo”. Potrebbe volerlo inchiodare a quelle affermazioni.
Lo ha fatto anche ieri. Lo scontro tra i due è stato frontale. Johnson, con lo smalto di quando è in forma, ha detto di non poter parlare dell’argomento per ragioni legali. Alla domanda se si dimetterebbe, ha risposto con un semplice «no», insistendo sui «traguardi»: la Brexit, la prima campagna vaccinale. «Il problema dei laburisti è che lui è un avvocato, ma non un leader», la stoccata a Starmer. In seguito, ha ammesso che, sì, dovrebbe fare un passo indietro qualora avesse sviato il parlamento, ma lui – assicura – non l’ha fatto.
Anche qualora Johnson ne uscisse indenne, il suo governo resterebbe a lungo paralizzato e depotenziato. Il crollo nei sondaggi è tale che anche i suoi pretoriani iniziano a chiedersi se riuscirà a riprendersi. Come conclude in un epigramma un editoriale del Times, «il primo ministro è in carica, ma non al potere». In questo stallo alla messicana, l’agenda politica del Paese è bloccata, come forse non succedeva dai mesi di sconfitte parlamentari sulla Brexit di Theresa May. All’epoca non è finita benissimo.