Ike & Tina Turner – ‘What You See Is What You Get: Live at Carnegie Hall‘, 1971
È una calda notte dell’estate 1957, nel fumoso e affollato Manhattan Club a East St. Louis, Missouri. In cartellone il gruppo di Ike Turner, i Kings of Rhythm. Il mix di blues e r’n’b che suonano da ormai tre lustri li ha trasformati in una leggenda locale. In platea ci sono Anna Mae Bullock e la sorella maggiore Alline, barista del locale e fidanzata col batterista del gruppo. Sono ormai diverse sere che Anna Mae si mette in prima fila e si mangia con gli occhi il capobanda, «quasi mi mandava in trance vederlo suonare». Si è già proposta per cantare qualcosa, ma lui non ha mai dato il permesso di salire a quello scricciolo di 17enne, magra e coi capelli corti e ricci. È l’intervallo, e quando Eugene Washington esce da dietro la batteria e passa per scherzo il microfono ad Alline, Anna Mae la precede, lo afferra, e si getta in un’interpretazione improvvisata del pezzo di BB King che Ike da solo sul palco sta suonando all’organo, ‘You Know I Love You’, che suona come una premonizione. Ike rimane colpito dalla voce, pazzesca per la sua età, e nelle serate successive la invita di nuovo, più volte, a salire e cantare, prassi frequente con le persone vogliose in platea. Sorta di provini istantanei. Del resto, Ike ha occhio e orecchio per capire, esperienza per sapere.
Alle spalle ha già una gavetta lunghissima, e una storia personale tumultuosa. Nato da due genitori creoli in una delle capitali del blues, Clarksdale Mississipi, a cinque anni vede il padre, predicatore Battista, picchiato a morte da una gang di bianchi perché aveva una relazione con la ragazza di uno di questi. La madre si risposa con un alcolizzato che lo mena, e da piccolissimo viene carpito sessualmente da donne più adulte: «È il motivo per cui in ogni relazione la parte sessuale era la principale. Il sesso per me esprimeva il potere».
Da ragazzo lavora in un albergo dove c’è una radio e impara i segreti della consolle, prende lezioni di piano dai musicisti che conosce e frequenta, Pinetop Perkins e Sonny Boy Williamson II. È ancora teenager quando mette su la band che, in mezzo a cento cambiamenti, sarà la sua per tutta la carriera: suonano blues, boogie woogie e jump blues alla Roy Brown o Roy Milton. Diventa roadie per il chitarrista Robert Nighthawk, impara a suonare la chitarra e suona nei juke joints a fianco di altri grandi, da Elmore James a Muddy Waters, turni di 12 ore da sera all’alba, «se il batterista doveva pisciare suonavo io finchè non tornava, non c’erano intervalli».
Nel marzo del 1951 nel Memphis Recording Service di un certo Sam Phillips incide un brano dedicato a una delle macchine flashose del tempo, la Oldsmobile ‘Rocket 88’, una 8 cilindri che domina le corse Nascar degli anni 50. Un razzo, appunto. Gran ritmo di boogie, un r’n’b veloce che viene considerato forse il primo disco di rock’n’roll. Ike la scrive mente la band va verso lo studio di registrazione, e prima di arrivare l’altoparlante, mal legato sul tetto, casca e si rovina il woofer. Ike, per ripararlo, lo riempie di carta appallottolata, che dà un suono distorto alla chitarra: nasce così, per puro caso, la prima fuzz box che renderà il suono sul disco così originale da rimanere nella storia.
Ike suona il piano, è il suo sassofonista Jackie Brenston a cantare, ma quando il pezzo viene pubblicato a livello nazionale dalla Chess il nome sull’etichetta è Jackie Brenston and his Delta Cats, Ike e i Re del Ritmo spariti. Il disco va al #1 della classifica dei Race Records, Phillips con quei soldi creerà la Sun Records, ad Ike rimangono solo venti dollari e la sensazione di esser stato truffato: quella frustrazione non lo lascerà più, e nel tempo diventerà sempre più paranoico, pensando il suo destino sia di lavorare per gente che poi lo avrebbe abbandonato.
Negli anni successivi lavora come musicista e produttore, suona e arrangia i primi hit di BB King, senza conoscere il meccanismo delle royalties viene truffato anche dai Bihari Brothers di L.A per la cui etichetta lavora come talent scout e autore, il nome cancellato da decine di hit che afferma di aver scritto o co-scritto. Fa il produttore per la Sun di Phillips e altre etichette regionali scoprendo Bobby Bland, Little Milton e Junior Parker, suona sui primi singoli di Howlin’ Wolf, cerca di arrangiarsi facendo incidere artisti come il Wolf o Elmore James per due etichette diverse, incontra anche un giovane bianco che frequenta i club dei neri, e solo anni dopo, quando si incroceranno in una serata, scoprirà che era Elvis Presley. Insomma, è un hustler della prima ora del mondo della black music, una sorta di far west con regole ancora tutte da scrivere.
Quando nel ’54 va a trovare la sorella che vive a St. Louis viene invitato dal proprietario di un club a rimanere, rifonda i Kings of Rhythm con la neo-sposa Annie Mae Wilson come cantante e suona nei locali della zona, spesso duellando con l’altra star locale, Chuck Berry. Nonostante la segregazione razziale sia ancora in atto suona anche nei club dei bianchi, sorpresi ed eccitati da questo nuovo ibrido musicale. Incide vari 45, arriva fino a Chicago a suonare con Buddy Guy e Otis Rush, è ormai un attivissimo trait d‘union di tutto quello che si muove sulla scena nera americana. Un pioniere dell’evoluzione della black music negli anni in cui tutto era ancora da fare.
Anna Mae Bullock, in quanto a esperienza e furbizia, è tutto il contrario. Ha otto anni di meno, quando nasce i genitori lavorano come supervisori nella piantagione di cotone di Pointdexer, vicino al piccolo villaggio rurale di Nut Bush, dove canta nel coro della Chiesa Battista locale: «Erano canzoni spirituali che parlavano di amore, del donare e di tutte le cose giuste che rendono la vita bella. C’era solo la Chiesa, e non sapevo nulla di tutti gli altri posti».
Cresce ascoltando alla radio il country & western e BB King. Quando la madre scappa di casa per fuggire dagli abusi del marito, le tre sorelle vengono affidate ai nonni, molto rigidi. Ricorderà sempre che è stata una bambina non voluta dalla madre, proprio perché non voleva un altro figlio da quel marito violento, «è una bruttissima cosa nascere non voluta e non amata dalla propria madre».
Lavora come domestica in una famiglia bianca, scopre la televisione dove vede per la prima volta le star di Hollywood, «non credevo che sarei mai diventata come loro». Gioca e fa la cheerleader per la squadra di basket del suo liceo, dove si innamora della star, Harry, il primo amore della sua vita, e sul sedile della macchina, «dov’altro, negli anni 50?», perde la verginità: «Ha fatto male, ma ero innamorata e andava bene così. Son tornata a casa e ho nascosto il vestito, ma la nonna il giorno dopo ha iniziato le pulizie di primavera, l’ha visto e mi ha detto ‘sapevo che ti divertivi, rimarrai incinta se continui così». Si lasciano quando scopre che Harry, «il ragazzo perfetto», ha sposato una ragazza che ha messo incinta. Quando la nonna muore, si ricongiunge con la mamma a St. Louis, e torniamo a quelle sere nel club davanti a Ike e la sua band: «erano the hottest thing. Non ero attratta da lui, ma volevo cantare con loro».
Quando finisce la sua interpretazione improvvisata, Ike le dice ‘ragazza, non credevo sapessi cantare!’, e a lei si apre un mondo. In una lunga intervista del 2005 con Oprah Winfrey, ricorda: «Ero così felice, perché lui era bigger than life per me. È lì che ho capito che volevo essere una entertainer. Lascia perdere il matrimonio, i figli, e vivere felice per sempre insieme come casalinga. Sparito tutto. Ike è venuto a casa mia e ha chiesto a mamma se fosse ok che cantassi con lui. Sapeva che avevo il potenziale per essere una star. Mi ha comprato una pelliccia, un vestito, scarpe coi tacchi. Mi ha portato dal parrucchiere, persino dal dentista. Andavo al lavoro in una Pink Cadillac. Eravamo come fratello e sorella, e ci divertivamo un mondo. Le notti che non si suonava mi portava in giro in macchina, mi raccontava dei suoi sogni, mi diceva che da piccolo la gente lo trovava poco attraente, e questo lo feriva. Mi sentivo male per lui, pensavo ‘io non ti farò mai del male, Ike’. Era un rapporto bellissimo, il tipo di amore che c’è in una famiglia, pensavo che non mi sarei mai più dovuta preoccupare di niente. Ero una ragazza ingenua di campagna, e lui mi avrebbe aperto tutte le porte. Era così carino con me, anche se vedevo l’altro lato: litigava sempre con la gente, ma pensavo che fosse perché lo avevano imbrogliato, vedevo anche il suo temperamento quando litigava con le sue donne ma non aveva nulla a che fare con me».
Nel frattempo Anna nel ‘58 ha un figlio col sassofonista della band Raymond Hill, lui se ne va e lei rimane da sola, e Ike si fa sotto. Poi arriva il marzo 1960, lei appena incinta di Ike, e la session d’incisione di ‘A Fool in Love’: lui scrive il pezzo, lo dovrebbe incidere Art Lassiter e le Artettes, ma non si fa vivo, lo canta lei. Dovrebbe essere solo una voce guida, ma piace al discografico newyorkese della SUE Records a cui lo manda un dj locale, e gli consiglia non solo di tenerlo così, ma di fare di Tina la star del suo show.
Le Artettes diventeranno presto le Ikettes, tre coriste-ballerine che con Tina al centro diventeranno l’attrazione nell’attrazione. In estate il pezzo, un r’n’b con sapore anni 60, va dritto in cima alla classifica. Finalmente Ike vede i soldi, quelli veri, e da vecchia volpe dei palcoscenici cambia strategia: la relazione platonica viene tramutata in una relazione sentimentale e un matrimonio frettoloso a Tijuana, Messico, sigilla l’unione. Senza nemmeno dirglielo Anna viene ribattezzata Tina, nome che suona come la protagonista di un telefilm su una sorta di Tarzan in gonnella, Sheena Queen of the Jungle. Per non avere problemi, il brand ‘Ike & Tina Turner’ lo registra come copyright, in modo che, eventualmente, chiunque avrebbe potuto essere Tina, la cantante della sua band.
Tutto questo mette Tina a disagio, e cerca di tirarsi fuori da quella situazione che comincia a sembrarle pericolosa. Il racconto alla Winfrey è più o meno lo stesso del film ‘What’s Love Got To do With It’ (interpretato dalla magnifica Angela Bissett), che è tratto dalla bio scritta con Kurt Loder, ‘I, Tina’: «Avevo paura, e ho detto alla manager che preferivo andarmene, sentivo che la vibrazione era cambiata. Ma non è che volessi andare con un’altra band, ero leale a Ike, sono fatta così. Allora Ike ha cominciato a dirmi di continuo ‘Vuoi farmi del male come tutti, vero? Mi vuoi abbandonare!’. Io gli dicevo ‘No! No! No!’, e più lo dicevo più diceva ‘sì, è così!’. Mi ha picchiato per la prima volta con uno tendiscarpe di legno, in testa. Bam! Ero sotto choc, come puoi picchiare qualcuna con uno tendiscarpe? Ha continuato col tacco della scarpa, poi mi ha sbattuto sul letto e ha fatto sesso. Più in là, questo pattern di accuse sarebbe diventato così familiare che quando cominciava, sapevo che arrivavano le botte. Camminava in cerchio mordendosi le labbra e montandosi dentro. Mi picchiava in testa, sulle costole, cercando di farmi un occhio nero. Voleva che i suoi abusi fossero visibili. Quella era la parte più vergognosa per me».
È l’inizio di un tunnel buio che sarebbe durato sedici anni, una doppia vita di cui non si è mai accorto nessuno, di cui nessuno ai tempi ha mai parlato. Anche perché la focale era su di loro come macchina da spettacolo. Un duo definito da Rolling Stone ‘il secondo migliore di tutti i tempi’ (dopo gli Everly Brothers). È oggettivamente complicato trovare ‘il’ disco che possa essere preso a simbolo: hanno inciso per non meno di 15 etichette, qualità media buona ma nessun capolavoro singolo da evidenziare, e nessuno è mai riuscito a fare una compilation davvero onnicomprensiva.
Quella che si avvicina di più è “Proud Mary: the best of Ike & Tina Turner”, a cui mancano comunque diversi Lp degli anni 60, “River Deep Mountain High” in primis. Negli anni si sarebbe sempre riproposto lo stesso problema: a differenza degli artisti della Motown o della Stax, che avevano autori che li rifornivano di grandi classici del soul, Ike non era autore prolifico nè di alta qualità, e il repertorio si appoggiava sempre su brani da Chitlin’ Circuit, che non facevano presa sulla massa.
Dopo il primo singolo tornano in classifica e vengono nominati per un Grammy con ‘It’s Gonna Work Out Fine’, e poi una stringa di singoli composti da Ike: ‘I Idolize You’, ‘I’m Jealous’, ‘Poor Fool’, ‘Tra la La La’. Fra il 1961 e il ’66 escono sei album nei quali la formula è la stessa, ancor meglio rappresentata in quattro live (“Ike& Tina Revue Live”, “Live! The Ike & Tina Show”, “In Person”, “Festival of Live Performances”) che mettono in scena la potenza della Ike & Tina Turner Review, una versione moolto più verace delle altre soul revues che girano ai tempi, prima fra tutte quelle della Motown con le Supremes e le Vandellas, alla pari con quelle di James Brown e Otis Redding. Tina è una forza della natura, la voce rauca e gutturale, una belva che grida e strepita, una versione femminile del James Brown degli inizi, un grido animalesco appena tenuto sotto controllo, una carica di sesso dinamitardo.
Con Brown condivide anche quello stile di ballo che leggenda vuole Mick Jagger copi a suo uso e consumo: una gamba ferma e l’altra che batte, i passettini avanti e indietro, un muovere le mani frenetico, in tutte le direzioni, con le Ikettes che replicano all’unisono i suoi movimenti. E poi, quelle gambe… le lunghe gambe di Tina diventano leggenda, come i suoi abiti – a volte minigonne, altre poco più di un velo sgambato che sottolinea quel corpo compatto, atletico, che sprigiona energia e sensualità. I live del periodo colgono in audio quello che solo con gli occhi si può godere per intero: Ike che in modo molto cool comanda tutto da dietro, pressochè immobile, con la mano che picchia sulla ritmica, Tina che avanza e spazia sul palco come una tigre in calore, dialogando e ribattendo col pubblico, l’eccitazione alta, altissima, la band che è una delle migliori sulla scena americana in quanto a intensità e funkitudine. Per il suo carattere e per i suoi modi Ike otterrà rispetto per il suo ruolo solo in parte e tardivamente, ma lentamente la Revue si afferma come uno dei migliori show dal vivo, nonostante le hit non siano clamorose.
Tina conosce anche la dura vita on the road, niente glamour, notte dopo notte in locali bui e fumosi che la fanno lacrimare e bruciano gli occhi e la gola, dai quattro ai sette spettacoli al giorno, senza soste e senza il tempo di rifiatare, a volte nemmeno di curarsi quando ha 40 di febbre e le corde vocali a pezzi. È una produzione fatta in casa per tagliare le spese, il guidatore del bus che raddoppia come tecnico delle luci, e appena ricaricati gli strumenti si rimette alla guida, a volte legando il volante per potersi alzare e sgranchirsi le gambe.
Ike gestisce in proprio tutta la parte di booking per le date, pagamenti a metà concerto se no rischi di non averli mai, e anche questo succede, come capita anche di essere inseguiti sulle Statali da pickup di bianchi col fucile in mano. Gestisce il gruppo con una disciplina spietata, spesso chi sbaglia una nota o una ragazza che ha qualcosa fuori posto vengono multati. Trova delle ragazze fidate e in gamba per gestire la sua Agenzia, e inevitabilmente diventano anche amanti, il paradosso è che diventano amiche di Tina, accumunate dal cinismo e dalla brutalità dell’uomo. Stessa cosa per la tata bianca che a L.A. tiene i quattro figli, i primi due dal suo matrimonio e i due di Tina, mai sazio di sesso e dominanza. «Ero gelosa e ferita», racconta in ‘I, Tina’, «ma non potevo dire niente, nessuno poteva dire nulla a Ike, perché non sapevi mai come avrebbe reagito».
Tutto sembra cambiare nel 1966, quando una sera in un club sulla Sunset Strip a L.A. si accorge delle qualità vocali di Tina, «assolutamente sensazionale», il grande produttore dell’epoca, Phil Spector. Ha inventato la wall of sound, un suono in mono ottenuto incidendo e sovra-incidendo gli archi, altri strumenti e le parti vocali per creare una sorta di muraglia sonora dietro la cantante solista. Sinfonie tascabili per teenager, le hanno definite. Ha già portato al successo con ‘Be My Baby’ Ronnie Spector, poi sua moglie. Ha lanciato le Shangri-Las e le Crystals e vede in Tina la cantante perfetta per ‘River Deep, Mountain High’, una canzone che ha scritto con due autori del Brill Building newyorkese, Jeff Barry e Ellie Greenwich: una canzone di fedeltà, che paragona quella di una donna a quella di una bambina per la sua bambola di stracci, o quella di un cucciolo per il padrone. Testo per teenager, come tutte le sue canzoni.
Spector però è anche consapevole che se si ritrova in studio Ike sarà molto difficile riuscire a fare quello che ha in mente, quindi gli dice ‘senti, alla fine il pezzo lo accreditiamo a tutti e due, Ike & Tina Turner, ma tu per favore stai lontano dallo studio, lasciami fare, in cambio ti do 20mila dollari’. Ike, che ai soldi non sa mai dire di no, dice ‘benissimo’ e si tiene fuori. Spector con altri 20mila dollari libera dal contratto in essere i due, li porta sulla sua etichetta, investe in una produzione ancor più meticolosa del solito 25mila dollari, una cifra veramente notevole per l’epoca. Impone due settimane di prove, da mezzogiorno alle due ogni giorno, e a Tina questo piaceva. «Per la prima volta, mi sentivo una professionista». Chiama ventun musicisti e ventuno coriste, a Tina la canzone la fa cantare e ricantare e ricantare ancora: «Credo di avere cantato quella canzone mezzo milione di volte, ero completamente fradicia di sudore, alla fine mi sono dovuta levare la camicetta e cantare in reggiseno», come ricorda anche il tecnico del suono Larry Levine: «Quando è entrata era elettrica. Abbiamo abbassato le luci, e quando si è levata i vestiti perché non riusciva a trovare lo swing… che corpo! Era incredibile come si muoveva. Elettrica, elettrica».
Bob Krasnow, il discografico che ha organizzato la seduta: «Quando Tina è entrata e ha sentito per la prima volta la base ha detto: «Ma state scherzando? È come sentire per la prima volta Bach. Wagner». Alla fine, ha detto ‘ok, Phil, ancora una volta’. Si è strappata la camicetta, ha afferrato quel microfono, e ha dato una performance che…avevamo tutti i capelli dritti. La stanza è esplosa, un momento magico». Due dj radiofonici che erano stati invitati alla session sono in fondo alla sala, in ginocchio, in lacrime.
La canzone è un capolavoro dell’epoca, la voce selvaggia di Tina – nonostante Spector le dica di cantare la melodia, di non ruggire come suo solito – che contrasta magnificamente con quel suono in cinemascope, una potenza che ti lascia stordito di bellezza. Solo che, nell’America ancora divisa fra bianco e nero, per le radio black è una produzione troppo pop, e per le radio bianche Tina non è cosa. Phil Spector non riesce a credere ai suoi occhi: il suo capolavoro rigettato arriva solo al #88 dei singoli, l’album (sei brani prodotti da lui e sei rifacimenti dei vecchi hit del duo prodotti da Ike, con foto di copertina di Dennis Hopper) addirittura non viene pubblicato, e anche se in Inghilterra (dove tutte queste fisime razziali non esistono) il brano va al #3 e viene osannato (George Harrison: «Un disco perfetto dall’inizio alla fine. Impossibile migliorarlo»), Spector dalla delusione non si riprenderà più. Sparisce per due anni, una sorta di ritiro sabbatico da lesa maestà che sarà però l’inizio del suo declino e della sua autodistruttività. Nell’anomalia di due suoni e produzioni così diverse, rimane comunque un grande album (#40 di Pitchfork degli anni 60). (per motivi di diritti ‘River Deep’ non appare su nessuna antologia, sostituito su “Proud Mary- The Best of Ike & Tina Turner” dalla sua versione r’n’b, decisamente meno fascinosa).
Per Tina è l’assaggio di una musica diversa, un’apertura a generi oltre al r’n’b che ormai sente come una comfort zone da cui uscire. Dalla bio: «Per la prima volta nella mia vita, non era solo r’n’b, aveva una melodia. Era la prova che potevo fare altro a parte quello che mi faceva fare Ike. Non per sminuirlo, ma questo era diverso. Ero una cantante, sapevo di poter fare cose diverse, e anche la gente l’ha capito».
L’eco di questo brano le porta un invito da parte dei Rolling Stones ad aprire il tour che porterà al “Got Live If You Want It”, e Tina scopre un mondo diverso, in primo luogo l’Europa, da cui viene ammaliata. Compaiono a Ready Steady Go, e scopre quel ragazzo con le grosse labbra che la guarda dal bordo del palco prima di andare su lui:«Dopo Ike & Tina dovevamo lavorare molto di più. Perché tiravano su il pubblico moltissimo. Ma questo era il motivo per cui li avevamo scelti».
La vita privata continua disastrosamente, quando Ike scopre la cocaina in dosi da cavallo la situazione degenera definitivamente. Dopo aver sperato in una famiglia con bambini, Tina si ritrova «intrappolata in questo piccolo culto sadico, piena di vergogna e senza speranza», Ike che senza freni si porta l’amante preferita persino a casa, e passa da una camera da letto all’altra.
Tina si compra una parrucca nuova (da tempo ormai, dopo che si è bruciata i capelli con la tintura, indossa parrucche, cosa che diventerà la sua cifra anche nei decenni successivi) e ad Ike non va bene. La picchia e Tina fugge una prima volta, ma Ike si fa trovare al capolinea del bus a St. Louis, la riporta a casa e giù botte. Una notte le spacca a pugni la mascella e la costringe a cantare così, col sangue che le riempie la bocca. Lei non ne può più, a L.A. prima di uno show ingoia un tubetto di Valium, cercando comunque di salire sul palco per non rovinargli l’incasso, incredibile. Quando si risveglia in ospedale, lui la insulta «per aver tentato di rovinare la mia vita. Ti sta bene, vuoi morire? E allora Muori!». «Dopo la gratitudine, dopo l’amore, o quello che fosse, ora cominciavo a odiarlo».
Ma tutto questo fuori non trapela. Alla fine degli anni 60 escono buoni album: “So Fine”, “Outta Season” (con una commovente versione di ‘I Am A Motherless Child’, così autobiografica), “Cussin’ Cryin’ and Carrying On”, “The Hunter”, “Come Together”. Non abbandona del tutto la musica nera, straordinarie le cover di ‘I Want To Take You Higher’ di Sly e ‘I’ve Been Loving You Too Long’ di Otis e tanti classici del blues. Ormai più che r’n’b è rock-blues, ma c’è lo spiraglio di una nuova direzione. Tina per la prima volta scopre i Beatles e implora Ike di poter cantare quelle canzoni, di poter cominciare a interpretare la musica che va per la maggiore, ovvero il rock.
Il repertorio si apre, attingendo ai Beatles, di cui fanno delle cover che immettono dosi elevate di negritudine in quei brani così melodici. Se Joe Cocker rifà ‘With A Little Help’ in chiave psichedelic-blues, loro ci mettono dentro tutta l’esplosività di una band cazzuta e di una voce che trasforma tutto quello che tocca: ‘Get Back’ e ‘Let It Be’, ‘Come Together’ e la ‘Honky Tonk Woman’ degli Stones indicano una nuova strada che funziona, fra gospel, r’n’b, funk e soprattutto rock. Da quel momento la Revue non è più solo una cosa da neri, e il trionfale tour americano con gli Stones, quello di ‘Get Your Ya-Ya’s Out’, lo dimostra.
Poi, arriva il notevole album “Workin’ Together” e il pezzo della vita, la storia di quel battello che percorre il Mississipi, scritto da uno che non è mai stato più a Est della California, ma che ha dentro di sè tutto lo spirito del Deep South, John Fogerty. Pensano di incidere ‘Proud Mary’ com’è, ma poi, in macchina, Ike e Tina la reiventano. Comincia piano e dolce, con Tina che spiega: «Ogni tanto sentite qualcosa nice and easy. Ma noi non non facciamo mai le cose nice and easy, noi le facciamo…rough. Ruvide. Questa la cominciamo nice and easy…ma la finiamo rough!».
La chitarra e il charleston accompagnano le prime strofe, Tina morbida e seduttiva, Ike che le fa il controcanto baritonale, mentre la grande Riverboat Queen comincia a muoversi sul fiume…«we’re rolling on a river»…Lo ripetono tre, sei volte, tutto si ferma per un attimo e poi si scatena l’inferno. Entrano i fiati, una batteria con rullatone sensazionali, tutto si velocizza, esplode, pura energia che crea onde che sul Mississipi non si son mai viste. Cinque minuti di quelli che segnano una carriera, gli fanno vincere l’agognato Grammy, per la prima volta sono nella Top 5 pop.
È il momento d’oro della coppia, e gli anni 70 li vedono girare il mondo, dal lontano Oriente all’Africa (per le celebrazione dell’Indipendenza del Ghana, show ripreso sul film Soul To Soul) all’Europa, dove scoprono di essere più amati che in USA. In Francia, Le Monde la definisce ‘la voce del desiderio’ e incidono l’ennesimo live, “Live In Paris”, doppiato sempre nel ’71 dalla registrazione del loro concerto alla Carnegie Hall, “What You Hear Is What You Get”.
È l’album che ho scelto, perché credo sia la maniera migliore to feel the vibe, per sentire fisicamente la potenza degli show di Ike e Tina, qui al suo massimo. È un concerto breve, per di più i primi tre pezzi sono cantati dalle Ikettes, ma i 45’ successivi sono veramente adrenalina allo stato puro. Escono dalle casse e ti tirano dentro, impossibile resistere. Due brani in particolare: una versione di oltre 10’ di ‘Proud Mary’ carica oltre ogni ragionevole possibilità, e gli otto minuti della cover di ‘I’ve Been Loving You Too Long’ che è il perfetto ritratto della loro storia sadomasochista, di passione e sesso, di complicità e sfida.
Tina non canta e basta, riversa nelle parole tutta la sua anima, raramente ho sentito qualcuna cantare così, melodica e disperata, in controllo della voce e fuori controllo delle emozioni:
«…Sei stanco e il tuo amore si sta raffreddando
Il mio amore sta crescendo mentre la nostra storia invecchia
Ti ho amato un po’ troppo a lungo, troppo a lungo
Per fermarmi adesso…»
Perché non sei pronta a morire, insinua lui.
Sembra una battuta, se non sai quello che succede dietro…
«Se mi vuoi» – lo voglio, dice lui – «mi puoi fare far qualsiasi cosa…
Tu hai quello che voglio, e non sto mentendo»
Baby anche tu hai quello che voglio…
A ogni scambio di battute nella sala del prestigioso teatro newyorkese si alza prima un mormorio, poi un boato.
Tu hai quello di cui hai bisogno
«Anche tu»
Voglio che ti strofini su di me
«Io voglio che tu me lo dia…»
C’è humour, c’è sesso, Tina accarezza il microfono fallico…c’è una leccata senza fine di Ike.
«Riprovaci», fa lei
Rileccata.
«Quello che sentite è quello che avrete….», clamore in sala. E per chiudere un orgasmo che quello di Harry e Sally è roba da educande.
Questi erano sul palco: un inferno nella vita privata e il paradiso sul palco, dove sono incredibilmente sulla stessa lunghezza d’onda. Se considerate la musica una terapia, il palco era il luogo dove Tina Turner riusciva a curare la sua anima ferita. L’unico posto dove, nelle sue parole, si sentiva viva. Fuori, era morta.
Nel 72 inaugurano il loro studio, Bolic Sound, dove incidono “Nuff Said”, molto ben accolto, ora che la strada è spianata. Gli album hanno sempre quel qualcosa che manca, e Tina comincia a scrivere lei stessa i brani: su “Feel Good”, altro buon Lp, li firma tutti tranne uno. L’ultimo sprazzo di gloria arriva nel ’73, di nuovo una sua composizione, decisamente autobiografica, ‘Nutbush City Limits’, gran pezzo (ormai) pienamente rock, che in Europa va molto meglio che negli USA, quante volte l’ho messo a Popoff. E nel ’74, per non farsi mancare proprio nulla in una carriera che ha attraversato tutta la black music, incidono un album di gospel “The Gospel According to Ike & Tina”, e lei un album di country, “Tina Turns the Country On”. Nel ’75 recita anche nella versione cinematografica di ‘Tommy’ di Ken Russell nella parte della Acid Queen.
Arriviamo all’estate del ’76. Il 1° luglio volano insieme a Dallas, Texas, per una serie di concerti all’Hilton. Qualcosa è cambiato nella vita di Tina. Le molte chiromanti che ha sempre consultato nei suoi viaggi le hanno detto che questa vita d’inferno sarebbe finita, e la attendeva un futuro luminoso, da grande star. Da sola. Ma soprattutto, un’amica l’ha introdotta al mantra buddista, e la pratica del canto è diventata una costante nella sua vita quotidiana. Acquisisce forza interiore, e sa che il momento è arrivato.
Arrivano un paio di manrovesci per i soliti futili motivi sulla limo per l’aeroporto, e quando scendono a Dallas la violenza continua. Ma questa volta reagisce, e la violenza sale di livello. Con i pugni e con le scarpe, Ike le deturpa il volto, il vestito pieno di sangue. Arrivano in camera da letto e lei fa finta, come sempre, di essere accondiscendente, servile. Gli fa un massaggio, lo addormenta, e alle 9 di sera, mentre tutti la cercano per andare sul palco, scappa. 36 cent e una Mobil Card in borsetta, vestiti insanguinati, la faccia così gonfia che non riesce neanche a indossare la parrucca.
Si rifugia in un Ramada Inn, al manager dice: «Sono Tina Turner e mio marito mi ha appena picchiato, come può vedere. Non ho soldi ma la ripagherò. Posso avere una camera?». Le dà la suite più bella, security dell’albergo davanti alla porta nel caso che, e da mangiare – visto che non riesce a masticare- una minestra. Tina telefona all’avvocato di Ike a Los Angeles che sa i retroscena della loro storia, e questi organizza di farla prendere da una coppia la mattina e portarla all’aeroporto. Il giorno seguente atterra e inizia una nuova vita. Fuggiasca a e nascondendosi le prime settimane, ma finalmente al sicuro. Due anni dopo, il divorzio.
La pantera sul palco, o l’uccellino in gabbia, come lei si vedeva, è libera. È tempo che cominci il secondo capitolo della sua vita e sì, come le avevano predetto, diventerà la più grande rockstar femminile degli anni 80 e 90.