Il rapporto di Jonathan Bazzi con Milano è qualcosa di enorme, strabordante, tanto che nei suoi romanzi questa città occupa una parte importante della narrazione: lo faceva in “Febbre”, il suo romanzo d’esordio con cui è arrivato in finale al Premio Strega e ha vinto il Premio Bagutta Opera Prima e Libro dell’Anno di Fahrenheit, e lo fa ancor di più in “Corpi minori”: il suo secondo e attesissimo libro, edito da Mondadori, che esce l’8 febbraio.
Bazzi sviscera, attraverso frame della sua vita e dei suoi affetti, temi enormi come la sieropositività, colonna portante di “Febbre”, o l’ingiustizia sociale e la difficoltà di una generazione di affermarsi e trovare la propria strada, fil rouge di “Corpi minori”, dove una parte preponderante della narrazione riguarda proprio Milano, la città dei desideri di Jonathan, cresciuto a Rozzano, un paesino dell’hinterland, periferia sud degradata e dimenticata. «Io isolo alcuni aspetti della mia esperienza e li metto in scena: dopo “Febbre”, che era molto incentrato sul racconto dei margini, di Rozzano, della periferia e delle case popolari, mi interessava raccontare il movimento dalla periferia verso il centro che, nel mio caso, è stato sognato, atteso e poi messo in atto non senza fatica. Ho raccontato le contraddizioni e i compromessi che per forza ci sono quando si prova a vivere la città senza una struttura familiare alle spalle, o senza un’identità professionale definita. E questo credo abbia molto a che fare anche con il nostro tempo, è una questione generazionale».
Trasferendoti a Milano cercavi anche delle risposte?
C’è tutto un gioco di sovradimensionamento e di aspettative, un gioco di riflessi: mi interessava provare a parlare dei sogni e delle idealizzazioni legate alle città, dell’amore romantico. Ho voluto provare a raccontare quel movimento che sta nel mezzo tra l’attesa, la fantasticheria e la realizzazione vera e propria del sogno, quando poi ci si trova a fare i conti con quelle che sono piccole o grandi cadute nella realtà: il prezzo che la città ti chiede di pagare e le trattative, più o meno dolorose, che ti impone di mettere in atto. Dopo “Febbre”, che era un libro sull’infanzia e sull’adolescenza, mi interessava parlare di un altro tempo: il quarto di secolo, che a volte si porta dietro la first quarter crisis, ovvero quello che succede intorno ai 25 anni e che rappresenta uno dei principali momenti di passaggio: quando si passa da una condizione di dipendenza dalla famiglia ai primi tentativi di essere qualcosa di autonomo.
Adesso che non ci vivi più, che rapporto hai con Rozzano?
I miei sentimenti nei confronti di Rozzano, ma in generale con tutto l’hinterland, sono cambiati: fino a quando abitavo lì prevaleva sicuramente il senso della vergogna, provavo in ogni modo a nascondere questa mia provenienza. Nel corso degli anni poi, soprattutto quando ho iniziato a vivere a Milano, si è attivata quella parte di continuità, eredità, e senso di appartenenza nei confronti di Rozzano che prima non sentivo. Molto di quello che sono come autore, e come scrittore, ha molto a che fare con il posto da cui vengo, io oggi sono felice di poter raccontare quei posti: mi sono dovuto spostare per una questione di sopravvivenza ideale, ma sento una sorta di responsabilità nei confronti di Rozzano e del suo racconto perché, pur nella sua vicinanza spaziale con Milano, è un mondo totalmente diverso. A un certo punto è nato in me addirittura un certo orgoglio: perché si tratta di posti dove le persone sono abituate a combattere, rispetto alle condizioni materiali, alle istituzioni, ma anche le une con le altre, e quindi è tutto più vivido rispetto alle situazioni più ordinarie e borghesi della città. Penso che la forza narrativa di questi posti sia incredibile.
Su cosa vorresti portare l’attenzione grazie alla tua voce?
I rozzanesi non amano sentirsi raccontare, ma la fatica e le emozioni negative, che per chi ci abita sono sono una sorta di condizione perenne, sono anche un limite al cambiamento. Sicuramente c’è una grande responsabilità da parte di chi amministra questi posti, che sono stati costruiti con materiali scadenti e tirati su senza alcuna cura, né materiale né tantomeno estetica. All’epoca in cui sono stati costruiti dovevano rispondere alle esigenze abitative di un particolare periodo storico, ma poi sono rimasti così, cristallizzati nel tempo e dando vita a delle comunità che hanno una rappresentazione di sé molto, troppo dimessa.
In “Corpi minori” Milano è una sorta di co-protagonista…
Questo voleva essere un romanzo incentrato sul desiderio e sulle forze che questo può scatenare, che possono essere positive, ma anche controverse, oscure. Portare questo faro narrativo su Milano è stato, per me, un modo per parlare del desiderio, perché si può dire che, almeno per quanto riguarda l’Italia, questa sia la città dei desideri, quella dove moltissima gente arriva in cerca di una realizzazione, identitaria e professionale. Tutti i personaggi che ho messo in campo si portano dietro nella loro vita questa attrazione, questo moto centripeto verso il loro posto di elezione: sono tutti personaggi che arrivano a Milano provenendo da altre zone. Milano è il luogo che promette di regalarti quella che è la tua identità, ed è possibile che questo processo sia faticoso: le storie personali in qualche modo ti seguono, ti costringono a fare i conti col passato anche in città.
In questo senso non fai sconti alla città quando si tratta di mettere in scena le difficoltà che si incontrano nel crearsi una situazione abitativa decente…
Oggi chi si stacca dalla famiglia, a Milano, non può che scivolare in altre forme di dipendenza, come quella della condivisione della casa, e continuare magari a farlo per tantissimo tempo. A Milano gli affitti sono talmente alti che ostacolano molto l’emancipazione, anche a fronte di un’indicazione anagrafica che suggerirebbe il contrario: conosco persone di 50 anni che ancora vivono in condivisione. Il tema della famiglia nel libro è importante e duplice perché, oltre al rapporto con quella di origine, ci sono anche le formazioni famigliari che una città come Milano, per via della questione abitativa, crea. Persone che vivono assieme per esigenza rappresentano qualcosa di molto tipico e frequente, spostando un po’ quella che è la narrazione tradizionale della famiglia.
E poi c’è la questione dei margini: Milano è molto identitaria rispetto alle zone dove scegli, o dove ti puoi permettere, di abitare.
Questa è una di quelle che io chiamo consapevolezze seconde: uno fin quando sta fuori non se ne rende conto, ma a Milano le periferie non sono solo esterne: questa dialettica centro-periferia non è così lineare perché alcune situazioni, tipiche dell’hinterland, si ricreano in altre zone della città, come via Gola, che nel libro è citata proprio in questo senso. Posti che sono molto lontani anche dal tenore estetico medio della città, ma dove si crea la poesia vera, autentica, che ha molto a che fare con gli eccessi e con i margini. In un quartiere come questo si toccano estremi lontanissimi: la movida più cool e scenari che ricordano quelli delle favelas. Questi aspetti sono meno raccontati, anche perché molte delle persone che stanno qui non possono accedere alla narrazione condivisa della città, per questo io spero di poterlo continuare a fare: ho la vocazione per mettere a fuoco gli strati che non sono sicuramente quelli del racconto standard di Milano, scintillante e iper produttiva.
Ogni capitolo ha il nome di una via, o zona, di Milano. Quali sono quelle a cui sei più legato?
Sicuramente le due zone che ho conosciuto per prime e dove ho vissuto di più, quindi viale Monza-Pasteur, quella che oggi è stata re-brandizzata come Nolo, e poi Porta Venezia. Ogni volta che mi sono spostato in una zona ho sempre ricevuto delle piccole epifanie, perché parte della nostra storia ci segue a volte complicando le cose, a volte arricchendole. Nel mio caso c’è questa continuità con la periferia: io questa tensione desiderosa verso il centro ce l’ho ancora oggi, che abito in Ortica e, quasi tutti i giorni, vado a piedi in Porta Venezia.
“Corpi minori” quindi siamo anche noi che in qualche maniera veniamo attratti dalla città?
Esatto. Quando ho pensato a questo titolo ho individuato due possibili sensi: da una parte legato ai corpi dei personaggi di questo libro, che spesso hanno delle caratteristiche che li pongono ai margini, perché segnati da piccole o grandi malattie, perché prendono o perdono peso, oppure soccombono alla violenza della periferia o, nel caso delle donne, alla violenza maschile. E poi c’è un secondo senso di cosa si può intendere come corpi minori: tecnicamente in astronomia sono tutti quelli che non sono classificabili come stelle o pianeti, quindi qui c’è in qualche modo un’interpretazione più universale, che ci vede tutti corpi minori se osservati sotto la lente del desiderio, che ci fa eleggere a corpi maggiori ciò che amiamo. Mi interessava mettere a fuoco la natura intrinsecamente gerarchica del desiderio: dove c’è gerarchia c’è conseguentemente anche prevaricazione e sottomissione, ed è stato interessante raccontare questi anfratti controversi, che convivono con le parti più luminose e positive dell’attrazione e del desiderio.