Milano locomotiva del Paese. Milano capitale morale. Eppure, anche Milano non è vergine. A Roma c’è la politica, ma a Milano c’è l’industria e quando gli affari si intrecciano con la politica, il cortocircuito è dietro l’angolo. E poi c’è la magistratura.
Il 7 dicembre 1991 è Sant”Ambrogio e, come tradizione, c’è la prima della Scala. L’opera prescelta è il “Parsifal” di Richard Wagner e la direzione è affidata a Riccardo Muti. I vip, pur di essere presenti e farsi riprendere dalle telecamere – perché l’importante è esserci – sono pronti a subire sei ore di dramma. Vuoi mettere: per la prima volta, in sette anni di mandato, si affaccia dal palco Reale il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il picconatore, colui che di lì a qualche mese si sarebbe dimesso polemicamente contro l’immobilismo dei partiti nell’attuare le riforme. All’esterno, nella piazza, ci sono timide proteste degli animalisti.
La città sembra vivere ancora nella sua meravigliosa bolla, incurante dell’arrivo dello tsunami che, con tutta la sua potenza, spazzerà via ogni cosa. Niente e nessuno si salverà.
A poca distanza da Piazza Scala c’è il palazzo di Giustizia, sconosciuto agli italiani e poco amato dai milanesi per la sua imponente architettura fascista, squadrato e grigio com’è. Al suo interno c’è chi sta preparando la scossa che provocherà l’onda.
Un po’ più a sud della città c’è un altro palazzo, sconosciuto agli italiani ma conosciuto ai milanesi, è il Pio Albergo Trivulzio. La sua missione è lodevole, offrire assistenza agli anziani bisognosi. Chi non lo conosce? Eppure, è proprio lì che il corso della storia, milanese e italiana, sta per avere il suo irrimediabile e definitivo stravolgimento.
È il 17 febbraio 1992, una mattinata freddissima, di quel freddo milanese. Due uomini – il potente socialista Mario Chiesa e Luca Magni, un piccolo imprenditore brianzolo – si incontrano in un ufficio per discutere di appalti e di soldi. L’ufficio si trova nel Pio Albergo Trivulzio, di cui Chiesa è presidente. All’esterno ci sono le forze dell’ordine che, come in un film di spionaggio, mentre la città continua a correre e a vivere nella sua bolla, ascoltano alla radio la loro conversazione. Hanno saputo che il potente del Trivulzio pretende qualcosa dal suo interlocutore.
Il momento che tutti attendono con ansia sta per arrivare. Soldi. 7 milioni di lire. È la tangente. Eccolo, il Big Bang. La politica non sarebbe stata più la stessa, la magistratura non sarebbe stata più la stessa e Milano non sarebbe stata più la stessa. La locomotiva, mentre è in piena corsa, si blocca improvvisamente.
I corridoi del Tribunale stanno per diventare il set di un’interminabile docufiction giudiziaria. Tutta la città, suo malgrado, sta per diventarlo. Si accendono le luci delle telecamere. Ciak, si gira.
I magistrati percorrono ininterrottamente i corridoi del palazzo grigio e squadrato. Attorno a loro cameraman, giornalisti, curiosi. Tutti inseguono il pool. Dal palazzo di Giustizia a San Vittore il passo è breve. Le manette, come una rete a strascico, cominciano ad avvolgere i polsi di politici e imprenditori, gli altri attori protagonisti. Si spalancano le porte del carcere.
Chi l’avrebbe mai detto che un anonimo pomeriggio di febbraio di trent’anni fa e 7 milioni di lire avrebbero cambiato il corso della storia. Ma, in fondo, avviene sempre così. Eugenio Montale, milanese d’adozione, in una delle sue splendide poesie diceva:
«La storia non giustifica e non deplora,
la storia non è intrinseca perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta».
E Milano? Niente più Duomo, niente più Castello Sforzesco, niente più la Scala. Niente più capitale morale.
Eccoli i nuovi luoghi iconici della metropoli: il Tribunale, il Pio Albergo Trivulzio, San Vittore. E ancora per un po’, da quel 17 febbraio, Milano si chiamerà Tangentopoli.