La storia d’Italia degli ultimi tre decenni, durante quella che è chiamata “Seconda Repubblica”, è stata costellata da ripetute crisi e da un unico grande successo, l’ingresso nella moneta unica europea, che ha permesso, fungendo da rete di protezione del debito pubblico e dell’economia nazionale, di evitare le conseguenze più gravi di ognuna di quelle.
In questo periodo è tuttavia completamente scomparsa la crescita economica: quella poca crescita che vi è stata negli anni favorevoli è stata più che interamente consumata dalle due ondate recessive del 2008-09 e del 2011-13 e alla fine del 2019, vigilia della tempesta economica generata dal Covid in parallelo a quella sanitaria, il Pil reale dell’Italia era ancora 3 punti percentuali al di sotto di quello del 1998, anno in cui l’Italia fu ammessa all’euro.
In questi decenni la politica non è riuscita a guidare adeguatamente il Paese. Non ha avuto governi e primi ministri che fossero in grado di guidare la nave in mezzo a continue tempeste, consapevoli ogni volta dell’esatta posizione del vascello, delle dinamiche dei venti, di un porto sicuro in cui ripararla, della rotta per raggiungerlo e soprattutto che fossero in grado di coordinare adeguatamente le azioni dei passeggeri e dei marinai della nave. A causa delle tempeste e dell’ incerta conduzione della nave il Paese non è affondato ma è indubbiamente declinato dal punto di vista sia economico, che sociale e politico.
Quattro anni or sono, alle elezioni del 2018, gli italiani, esercitando il loro diritto di bocciare le forze politiche che determinano i governi, hanno deciso di accantonare le due forze che avevano dominato, in alternanza, il precedente quarto di secolo, promuovendone invece due come il M5S e la Lega che o non esistevano prima o comunque non avevano svolto ruoli centrali di governo. Hanno in questo modo preferito le incertezze del nuovo alle non più gradite certezze del passato, affidandosi a forze che, per i contenuti dei programmi politici con cui si sono presentate al voto, sono state correttamente definite come populiste.
Ma qui occorre porre una domanda chiave: si è trattato di un abbaglio degli elettori, come molti commentatori sembrano aver creduto in questi anni, oppure molti cittadini comuni avevano motivi validi per essere scontenti dell’esistente e per ritenere meno svantaggiosi i rischi di un salto nel buio rispetto alle certezze del mantenimento dello status quo?
Se nell’ultimo decennio l’economia italiana, evitando la doppia recessione, fosse cresciuta agli stessi tassi, ancorché non esaltanti dei periodi precedenti, alla vigilia della pandemia il nostro Pil sarebbe stato maggiore di quello effettivo di almeno un quarto, forse persino di un terzo. È dunque evidente lo scarto tra dove avremmo potuto e dovuto essere in termini di ricchezza nazionale e dove ci siamo ritrovati effettivamente. Le forze politiche bocciate alle elezioni del 2018 sono state dunque considerate responsabili sia di non aver saputo evitare, o persino di aver permesso, questo impoverimento generalizzato, che della conseguente scomparsa di adeguate prospettive per le giovani generazioni, le più propense in conseguenza a votare per forze politiche non convenzionali così come a ricercare opportunità lavorative all’estero.
Sono, a ben vedere, due forme alternative di “exit” nel senso illustrato dall’economista e sociologo Albert Hirschman: nel primo caso si vota nelle urne mandando via chi ha sino a questo momento governato, nel secondo caso si vota coi piedi, cioè andando via. In altri tempi si sarebbe usata l’altra modalità per criticare l’esistente, la “voice”, la protesta, ma essa non sembra più così attraente né efficace.
Non vi è dubbio che molti tra le masse popolari addebitino alle élite nazionali questa situazione, accusandole di aver pensato solo a se stesse, di aver promosso esclusivamente la salvaguardia del loro benessere, isolandosi nelle posizioni privilegiate conseguite e togliendo corrente all’ascensore sociale, trascurando di dare una mano ai numerosi che sono in difficoltà e teorizzando che la loro condizione disagiata sia conseguenza esclusiva della loro responsabilità. Come si può dunque pensare che le masse popolari si fidino ancora delle élite quando si sono invece convinte che si siano sottratte alla loro responsabilità, abbiano perso utilità sociale e si siano trasformate in oligarchie autoreferenziali?
In questo senso il voto del 2018 è stato una cartina al tornasole e il populismo che ne è scaturito non è altro che il duale del rigetto critico del ruolo delle élite.
Questa analisi consiglia di rivolgere uno sguardo al passato e di riflettere brevemente sul rapporto élite/masse nel corso della storia e sui differenti suoi esiti. Le diverse società che si sono succedute e affiancate nel corso del tempo sono state condotte da élite e il successo che hanno conseguito, così come il suo venir meno, è dipeso da un lato dalla condotta di queste e dall’altro dal grado di cooperazione che sono riuscite a organizzare con le rispettive masse popolari. Le prime non sono infatti autosufficienti nel realizzare alcun tipo di obiettivo né lo possono essere le seconde. Se una società conseguirà risultati adeguati, se sarà in grado di generare adeguate risorse per i suoi membri e di distribuire con sufficiente equità, il che non vuol dire in maniera egualitaria, i vantaggi dello schema di cooperazione sociale, allora quella società sarà in equilibrio nel senso di John Nash, il matematico che ha fatto fare nel dopoguerra un notevole salto in avanti alla teoria dei giochi.
Nessuna classe o gruppo sociale avrà in tal caso vantaggio atteso nel mutare la sua strategia comportamentale e l’equilibrio potrà conservarsi, senza rischio di rivolte, rivoluzioni e restaurazioni.
Le società nelle quali la cooperazione tra élite e masse ha prodotto i risultati migliori sono quelle democratiche, tanto quelle dell’antichità classica quanto quelle contemporanee. La democrazia ateniese fu l’esito di un compromesso tra le classi, di un patto di reciproca utilità e cooperazione che superò i preesistenti sistemi oligarchici nei quali le classi inferiori erano senza reciprocità al servizio “dei ceti alti e dominanti”. Nell’antica Atene «la grandezza di quel ceto consistette nel fatto di aver accettato la sfida della democrazia, cioè la convivenza conflittuale con il controllo … del potere popolare» (L. Canfora, “Il mondo di Atene”). Ad Atene erano esponenti dell’élite ad assicurare i principali ruoli di governo ma essi erano eletti annualmente dai partecipanti all’assemblea, dai cittadini ateniesi, perché, come ricordato dal Pericle di Tucidide, «anche se pochi sono in grado di elaborare politiche, tutti i cittadini sono in grado di valutarle».
Atene sperimentò per prima una élite aperta che scelse di «accettare la democrazia per governarla». «Il miracolo che quella straordinaria élite ha saputo compiere … è stato di aver fatto funzionare e prosperare la comunità politica più rilevante del mondo delle città greche, e, ciò facendo, aver modificato almeno in parte, nel vivo del conflitto, sé stessa e l’antagonista».
Se, adottando l’interpretazione di Luciano Canfora del mondo di Atene, chiamiamo democrazia in senso sostanziale il governo esercitato da un’élite ma in nome, per conto e sotto la vigilanza delle masse popolari, non possiamo tralasciare come Winston Churchill abbia efficacemente etichettato questa stessa condizione sotto il nome di “civiltà”. Come disse il salvatore del mondo occidentale e delle nostre libertà il 2 luglio 1938 in un famoso discorso agli studenti dell’Università di Bristol, di cui era Cancelliere, «ci sono poche parole usate in modo più vago del termine “civiltà”. Cosa significa realmente? Significa una società fondata sull’opinione dei suoi cittadini. Significa che la violenza, il dominio di guerrieri e despoti, lo stato di guerra permanente, la ribellione e la tirannia lasciano il posto ai Parlamenti, dove si fanno le leggi, e alle corti indipendenti di giustizia, dove queste leggi sono fatte rispettare. È questa la civiltà, e nel suo suolo crescono continuamente la libertà, il benessere e la cultura. Quando in un paese regna la civiltà, alla massa dei suoi cittadini è concessa una vita più piena e meno tormentata. … Il principio fondamentale della civiltà è la subordinazione della classe dirigente ai costumi del popolo e alla sua volontà, quale espressa attraverso la Costituzione».
Ecco, il punto chiave è la “subordinazione della classe dirigente ai costumi del popolo e alla sua volontà, quale espressa attraverso la Costituzione”. Lo dice quasi allo stesso modo il primo articolo della Costituzione italiana, entrata in vigore dieci anni dopo il discorso di Churchill: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
È il popolo che sorveglia e indirizza il governo attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, «La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico» (K. Popper), ed è nel suo interesse che il governo sia formato da persone di adeguata competenza, un requisito che come già nell’antica Atene rende molto elevata la probabilità che siano esponenti delle élite a svolgere le relative funzioni.
Dunque la democrazia funziona se le differenti classi sociali cooperano, se le élite sono in grado di fornire adeguate competenze per il governo e lo esercitano nell’interesse generale e non nel loro esclusivo, e se le masse sono in grado di esercitare il controllo sul governo garantendo che ciò si verifichi davvero. Vi sono pertanto tre requisiti per il buon funzionamento di una democrazia: l’attitudine alla cooperazione tra classi, l’attitudine al governo da parte delle élite e l’attitudine al controllo da parte delle masse. Delle tre attitudini la prima è quella di maggior rilievo ma criticità rilevanti sulle altre due sono in grado di farla cadere.
Una democrazia in funzione è paragonabile a una comitiva di gitanti: è il gruppo che deve scegliere dove andare, avvalendosi di un capocomitiva che interagirà con l’autista del pullman fornendogli indicazioni sulla meta scelta. Ma l’autista non può che essere una figura competente per guidarlo, dunque deve essere dotato di una patente che certifichi che è in grado di condurre adeguatamente il mezzo.
A questo punto si manifestano tre possibilità di cui solo la prima rappresenta un esito adeguato: 1) i passeggeri sono in grado di indirizzare la guida verso la meta scelta e l’autista è in grado di guidare il mezzo; 2) l’autista è un ottimo guidatore ma i passeggeri non sono in grado di esprimere un indirizzo; 3) i passeggeri sono in grado ma il conducente è incapace.
Il primo caso è quello di una democrazia funzionante. Il secondo caso è quello di una democrazia inceppata in cui il popolo non è in grado di esercitare il controllo e in conseguenza le élite saranno libere di governare nel loro esclusivo interesse. Se il capocomitiva dorme e i gitanti sono distratti, l’autista alla guida avrà la libertà di portare il mezzo dove preferisce. Nel terzo caso, infine, se il popolo dei gitanti si allarga sino a pretendere di far guidare chi preferisce – anche se non dotato di patente – è evidente il rischio che l’autobus finisca fuori strada e in ogni caso esso non sarà in grado di giungere alla meta auspicata.
Questo schema di analisi può ovviamente essere applicato per interpretare la recente storia italiana ma richiede inevitabilmente un certo impegno e in ogni caso un numero elevato di parole per le quali non vi è spazio in questo scritto. Conviene dunque metterlo in agenda per un secondo momento.