Un anno dopoLa sindrome degli inglesi: delusi ma non pentiti della Brexit

A dodici mesi dall’uscita formale dall’Unione europea, 6 elettori britannici su 10 pensano che la vittoria del Leave sia andata peggio delle aspettative, e non hanno tutti i torti. Ma se si votasse di nuovo oggi non è detto che l’esito sarebbe diverso da quello del 2016

AP/Lapresse

Delusi, ma non pentiti. Una specie di sindrome dove Stoccolma è sul Tamigi. A un anno dall’uscita formale dall’Unione europea, secondo un sondaggio dell’Observer, sei elettori britannici su dieci pensano che la Brexit sia andata peggio delle aspettative. Non era facile. Persino tra i Leavers, chi votò a favore della secessione, il 42% è scontento. Complessivamente, solo il 14% degli intervistati pensa sia stata un successo.

Eppure, come ha scritto anche il Times, dati simili non si traducono in un pentimento per il voto al referendum, un dato che è rimasto stabile nel tempo, con scostamenti nell’ordine di grandezza di un solo punto percentuale. Tradotto: se gli inglesi potessero rivotare sulla madre delle loro tragicommedie nazionali, non è detto che l’esito sarebbe diverso da quello del 2016. Un Paese diviso è la vera eredità della Brexit, o viceversa.

Una delle ultime ricerche, uscita sul Journal of Elections, Public Opinion and Parties, di Martin Ejnar Hansen, che insegna Comparative European Politics and Public Policy alla Brunel University di Londra, riguarda proprio questo tema. Il titolo: Still dividing the electorate? Brexit and voter evaluation of candidates. Si conclude che, in pratica, nel Regno Unito il giudizio sulla Brexit è diventato un driver politico forte quasi quanto le vecchie appartenenze ai partiti. Non più – o, meglio, non solo – laburisti e conservatori: anche Leaver e Remainer sono diventate etichette che definiscono l’identità politica.

«Ci sono conservatori – spiega Hansen – che nel 2016 hanno scelto il “Remain” e ora non hanno un posto dove andare, però non votano contro il partito. I laburisti sotto Corbyn non hanno fatto campagna quanto ci si aspetterebbe da un partito di sinistra. Ci hanno messo quattro anni ad accettare l’esito del referendum e, quindi, la volontà popolare. La Brexit aveva il potenziale per far saltare il sistema dei partiti: con un’altra legge elettorale, come quella proporzionale, sarebbe avvenuto. È stata anche la risposta alla globalizzazione, molti si sono sentiti lasciati indietro e le élites non sono riuscite a spiegare i benefici di restare parte di una comunità europea, o non hanno voluto farlo. C’era una tendenza non a ignorare l’euroscetticismo, ma a dire “Tanto non succederà mai”. È questa la lezione che l’Europa dovrebbe imparare».

Un dato che non si è mai spostato riguarda l’operato del governo. Anche nei momenti di maggiore euforia, secondo l’opinione pubblica l’esecutivo guidato da Boris Johnson stava gestendo male il dossier. C’è un paradosso, simile a quello sul referendum: con un margine molto ampio, 57% contro 9%, un anno fa gli intervistati speravano che il parlamento ratificasse alla svelta il compromesso con Bruxelles del Natale 2020. Ma solo il 17% di loro lo considerava un accordo positivo per la Gran Bretagna. Possono aver inciso la sovracopertura mediatica, o la proverbiale cocciutaggine dei sudditi di Sua Maestà, ma sarebbe troppo banale giustificare la politica con gli stereotipi nazionali.

«L’idea dell’euroscetticismo non è nuova – ragiona il professore –, ce n’è un sacco anche in Europa. In Inghilterra ce n’è di più, e da tempo, le frizioni interne al partito conservatore hanno permesso che passasse in primo piano. Il Paese era diviso anche prima della Brexit: se un giorno si rivotasse e prevalesse il “Rejoin”, non sarebbe mai con una vittoria schiacciante, le percentuali sarebbero le stesse, ma invertite. Ma in poche nazioni europee vedremmo una maggioranza netta in un ipotetico referendum per restare dentro all’Unione. Rispetto agli altri Stati, però, nel Regno Unito temi come la Brexit e l’Europa hanno una centralità che non hanno altrove, dove di solito le priorità sono la sanità, la disoccupazione o la scuola. Qui, la Brexit e lo standing nella comunità internazionale sono cose molto importanti per le persone. Parte dell’identità britannica, direi».

Di solito, si ricorda solo il primo slogan elettorale di Johnson. «Get Brexit Done», che è l’unico che ha realizzato. Ma in quella campagna del 2019 faceva ticket con «Unleash Great Britain potential». Un potenziale che finora non s’è visto.

Per quanto riguarda l’economia, la Brexit sul lungo periodo costerà una contrazione strutturale di importazioni ed esportazioni del 15% rispetto a uno scenario dove l’isola restava parte dell’Unione. La Global Britain è riuscita, certo, a chiudere accordi commerciali separati: l’anno scorso con Australia e Nuova Zelanda, l’anno prossimo con Canada, Messico e India, mentre sono in corso i negoziati per entrare nell’Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico (Cptpp). Ma, spogliati dalla retorica, sono accordi poco remunerativi: quello con la Nuova Zelanda farà salire il prodotto interno lordo dello 0,01% entro il 2035, quello con l’Australia dello 0,08%. Un doppio zero che è licenza di uccidere le promesse.

A livello diplomatico, la Brexit ha causato inevitabili frizioni con il continente. Per ammissione degli addetti di lavoro, sono ai minimi storici postbellici le relazioni con Irlanda, Francia e Germania; irrisolte quelle con gli Stati Uniti. Londra può ora concentrarsi su altre aree del mondo, come Giappone, India e Australia, ma non viene percepita come una superpotenza se il nuovo cancelliere tedesco, Olaf Scholz, corso a Parigi e poi a Roma, non ha sentito il bisogno di conversare con il primo ministro prima di due settimane dopo essere entrato in carica.

«Tante promesse erano “ambiziose”, per essere gentili – continua Hansen – ,a non basta dire “voglio correre una maratona” per riuscirci senza allenamento. Serve tempo. Il governo inglese è fortunato che ci sia la pandemia a prendersi i titoli dei giornali invece dei disagi causati dalla Brexit. Perché la gente non è stata avvertita di ciò che sarebbe successo, ma soprattutto non abbiamo ancora visto le sue reali conseguenze: saranno quelle a lungo periodo. I viaggiatori con passaporto britannico subiranno visti per andare in Europa. Molti cittadini europei sono tornati a casa: un po’ perché i lavori non sono più pagati così bene, un po’ per evitare le procedure burocratiche per ottenere il settled status. Ciò ha creato problemi. Spesso, nei pub e nei ristoranti, i gestori dicono che hanno problemi a trovare staff».

Un tempo quello londinese era un parente minore del grande sogno americano. Intere generazioni sono volate nella metropoli, o nella periferia dell’ex impero, a cercare fortuna, o più prosaicamente di sbancare il lunario. Ma il Regno Unito di oggi non è più così attraente.

Per la prima volta da decenni, il numero di cittadini comunitari che lascia il Paese ha superato quello di chi si trasferisce. Il saldo tra chi parte e chi arriva l’ultimo anno è stato di -94mila persone. Persino le gite con finalità linguistiche, un evergreen delle scuole di tutta Europa, sono diminuite drasticamente. In entrambi i casi, non può essere colpa «solo» della pandemia, ma anche del sistema di visti e delle barriere all’ingresso.

«Per chi vuole restare, anche senza cittadinanza come me, il sistema funziona bene finora – conclude il professore – ma sono un accademico, prima ordinavo spesso libri dalla Germania o dalla Danimarca, ora è quasi impossibile, perché la burocrazia lo rende troppo difficile. Penso che la Brexit sia una perdita anche culturale. Se le scuole vorranno andare in una nazione dove si parla inglese, andranno in Irlanda. Il programma Turing non funzionerà mai bene quanto l’Erasmus di cui dovrebbe prendere il posto. Il mondo accademico è aperto per natura, ma vanno considerati anche gli aspetti tecnici. Temo un approccio più isolazionista, in futuro».

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