Non bisognerebbe mai fidarsi delle simmetrie troppo nette e tantomeno dei sondaggi, ma è difficile resistere alla tentazione rappresentata dal sondaggio pubblicato ieri dalla Stampa, secondo cui il primo effetto della rielezione di Sergio Mattarella sarebbe il calo di fiducia in Matteo Salvini e Giuseppe Conte: i trionfatori della lunga stagione populista culminata nelle elezioni del 2018.
Quali siano le simmetrie è presto detto. Il populismo italiano – perlomeno nella forma attuale – è nato all’inizio degli anni novanta, con la Lega Nord di Umberto Bossi, con il tentativo di utilizzare politicamente gli scandali sollevati dall’inchiesta Mani pulite, con i referendum elettorali adoperati come arieti per abbattere quanto restava del vecchio sistema, a cominciare dall’autonomia e dalla legittimazione del parlamento e dei partiti. Il risultato elettorale del 2018 è stato, da ogni punto di vista, il picco di questa trentennale ondata, di cui il Movimento 5 stelle ha rappresentato semplicemente l’ultima variante.
Se il collegamento tra populismo e maggioritario non vi fosse chiaro, basta che prendiate uno qualsiasi dei cento editoriali, corsivi, interviste o commenti pubblicati in questi giorni in difesa del bipolarismo, questa mostruosità sconosciuta a qualsiasi altra democrazia occidentale che per qualche strana ragione le nostre classi dirigenti considerano lume e specchio della modernità. Vi troverete facilmente tutti luoghi comuni trumpiani o para-trumpiani contro i professionisti della politica, la palude del parlamento, la casta chiusa nel Palazzo e sorda alle richieste dei cittadini.
Non si tratta infatti di una questione tecnica. Al contrario: il feticismo dei sistemi elettorali e delle riforme istituzionali che da trent’anni ha sostituito la politica è a mio parere una delle peggiori disgrazie tra le molte che si sono abbattute su di noi in quest’epoca sfortunata.
Quando ad esempio sento che in Inghilterra, per frenare il populismo, qualcuno vorrebbe cambiare il loro secolare sistema elettorale, penso che stiano scambiando la malattia per la medicina, e personalmente ho salutato con sollievo il fallimento del referendum elettorale nel 2011. L’idea di cambiare le regole del gioco per via referendaria, con la conseguente contrapposizione tra la presunta volontà popolare e la volontà del Palazzo (come se questo non fosse legittima espressione di quella), è stato proprio l’inizio della nostra rovina.
Da allora in poi, non abbiamo fatto altro che discutere di leggi elettorali e modifiche costituzionali, perché il maggioritario, per i suoi apologeti, non era mai abbastanza: c’era sempre qualche residuo del vecchio sistema, nelle leggi elettorali o nella Costituzione, a giustificare ogni stortura e ogni ulteriore rilancio. Sono trent’anni che ci sentiamo ripetere che bisogna «completare» la transizione.
Il bilancio fallimentare di questa lunghissima stagione non si può mai nemmeno prendere in esame, perché la giustificazione è sempre la stessa: l’idea era giusta, è stata solo applicata male, o forse troppo poco. È una forma di maoismo istituzionale, non meno ideologico dell’originale. Ma un’idea che per trent’anni di fila sia stata sempre applicata male, o non abbastanza, o non abbastanza bene, tutte le volte e in tutti i modi in cui sia stata applicata, evidentemente, non è un’idea così buona.
Tornare al proporzionale, con un’alta soglia di sbarramento e con tutti regolamenti anti-trasformisti e anti-frammentazione che si ritengano opportuni, non è dunque una tra le tante opzioni disponibili in questo infinito gioco dell’oca. È al contrario l’unica razionale via d’uscita dal pozzo senza fondo in cui ci siamo lanciati. E pertanto andrebbe accompagnata da una misura di sicurezza contro ricadute improvvise: se non attraverso la costituzionalizzazione della legge elettorale, perlomeno con un meccanismo in base al quale ogni ulteriore modifica entri in vigore solo a distanza di cinque anni, così da scoraggiare l’oscena abitudine di aggiustarsi le regole prima del voto.
Ripristinare un sistema politico compatibile con la Costituzione, essendo evidentemente falliti tutti i tentativi di fare l’inverso, è l’unica possibilità che ci resta per restituire un minimo di razionalità e credibilità a partiti e schieramenti. Non per niente, la sola istituzione rimasta intatta dalla furia riformatrice degli anni novanta, la presidenza della Repubblica, si è dimostrata in questi anni l’ultimo baluardo contro la marea populista. Ed è stata proprio la centralità assegnata dalla Costituzione al parlamento e al singolo parlamentare nell’elezione del capo dello stato, come abbiamo visto, a infliggere il colpo decisivo a partiti, coalizioni e leadership di cartapesta.
La speranza è che ora sia possibile compiere anche l’ultimo passo, affinché l’Italia possa tornare ad avere un sistema politico normale, in cui, come un tempo, i partiti rappresentati in parlamento siano sette-otto, e non settanta-ottanta. E sempre quelli, con i loro programmi e la loro collocazione, invece degli elettroni impazziti che saltano da una coalizione all’altra, scindendosi e riaggregandosi a ogni crisi di governo.
Segnali incoraggianti non mancano, a cominciare dall’esplosione del più insensato di tutti i prodotti di questa infausta stagione: il Movimento 5 stelle. I centristi di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, già in ottimi rapporti con Matteo Renzi e con un bel pezzo di Forza Italia, se non proprio con Silvio Berlusconi, auspicano apertamente l’arrivo di Luigi Di Maio e dei suoi seguaci. Se così fosse, è ragionevole pensare che al resto del movimento, sotto la sapiente guida di Giuseppe Conte e Alessandro Di Battista, non resterebbe che contrattare uno spazio nell’ennesimo nuovo partito della sinistra di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani.
Di Maio con Berlusconi, Dibba con D’Alema: la parabola del populismo italiano si chiuderebbe così nel modo migliore, e più istruttivo, per tutti. Varrebbe la pena di provarci anche solo per potersi godere un simile spettacolo.