In politica gli errori, anche quelli più gravi, dipendono sempre da un’analisi sbagliata. Capita alle persone, agli osservatori, come alle Cancellerie e ai governi, di sbagliare per inadeguatezza delle informazioni; è più frequente, però, in un mondo in cui si conosce tutto di tutti, che dai processi in atto si traggano le analisi che più fanno comodo o che destano minori preoccupazioni.
È quanto accaduto nell’aggressione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. In tanti – compreso, si parva licet, chi scrive – hanno pensato che Putin mirasse, per motivi di sicurezza, a ridisegnare i confini scaturiti dall’implosione dell’Unione sovietica: confini puramente amministrativi nel contesto di uno Stato totalitario (come era appunto l’Unione sovietica), che erano divenuti vere e proprie barriere tra nazioni in potenziale conflitto.
L’annessione della Crimea, invece, era dettata da ragioni strategiche, tra cui la possibilità di accedere nello scacchiere del Mediterraneo e del Medio Oriente, dove la Russia negli ultimi anni ha agito da protagonista nei conflitti che hanno insanguinato i Paesi turbolenti e instabili che si affacciano sul mare nostrum.
In sostanza, si è posta, nel dibattito, la domanda se la Nato non avesse approfittato dello sfascio dell’Impero del male, e della conseguente debolezza politica ed economica della Russia, per dare corso a una strategia di allargamento a Est che, dal 1999 a 2004, ha condotto tutti i Paesi ex satelliti e le repubbliche baltiche a entrare a far parte dell’Alleanza di difesa collettiva, storica avversaria dei sovietici.
Anche una persona informata dei fatti, come Romano Prodi che da Bruxelles nel 2004 aprì a questi Paesi le porte dell’Unione (come misura propedeutica per mettersi al sicuro sotto l’ombrello della Nato), ha ricordato in un’intervista rilasciata al Foglio il giorno prima dell’invasione, ciò che Vladimir Putin gli disse: per lo zar l’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione europea, dal punto di vista economico, non era un problema. La sua ossessione era la Nato. Lo ripeteva sempre: «Io non farò mai affari con la Cina, la Nato però non deve mettere piede né in Georgia né in Ucraina».
In sostanza – pur senza condividerle, anzi condannandole a suon di sanzioni – le mosse di Vladimir Putin potevano avere una spiegazione ed essere ricondotte a problemi affrontabili con un negoziato.
Anche dopo l’annessione del Donbass (mediante la pagliacciata del riconoscimento, in streaming, delle sedicenti Repubbliche) si poteva ritenere che Putin si fosse fatto giustizia da sé, consentendo all’Occidente di abbozzare come aveva sostanzialmente fatto dopo la Georgia e la Crimea.
Ma in poche ore lo zar russo, con l’attacco all’Ucraina (preparato da tempo nonostante le smentite) ha fatto tabula rasa di ogni analisi e ragionamento.
Lungi da noi l’idea di insultare venti milioni di morti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma l’azione del dittatore del Cremlino può essere definita in un solo modo: la conquista di uno spazio vitale.
Dove ci sono comunità russofone o russe in quelle aree su cui dominava l’Unione sovietica, lì deve arrivare la Madre Russia. È la medesima logica che portò Hitler a rivendicare (e a ottenere da Regno Unito Francia a Monaco nel 1938) l’annessione dei Sudeti, dove vi erano alcuni milioni di tedeschi inclusi in uno Stato – la Cecoslovacchia – disegnato a Versailles dalle potenze vincitrici della Grande Guerra.
Peraltro le parole con cui Putin ha annunciato l’attacco sono state di una durezza inaccettabile avvertendo quanti volessero interferire in Ucraina (dove l’esercito russo intende procedere alla «denazificazione» e alla punizione dei colpevoli di genocidio) che ne avrebbero pagato le conseguenze. Di fronte a queste affermazioni le “dure” sanzioni dell’Occidente sembrano piuttosto vaghe e parecchio rituali.
Mentre si combatte in Ucraina, gli analisti sono convinti che il prossimo obiettivo di Putin saranno le Repubbliche baltiche, che fanno parte dell’Unione europea e aderiscono alla Nato.
Non a caso i loro governi hanno chiesto di attivare l’articolo 4 del Trattato previsto a tutela degli Stati membri che sono minacciati da un avversario esterno.
Intanto, dall’altra parte del pianeta, la Cina popolare manda i suoi caccia a violare lo spazio aereo di Taiwan. Arriviamo così all’interrogativo che ci angoscia da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato ai talebani l’Afghanistan con una fuga vergognosa.
Nell’attuale crisi ucraina Joe Biden si è defilato, come se si trattasse di una questione europea; si è affrettato a garantire che la sua amministrazione non avrebbe mandato nessuno a combattere né avrebbe adottato sanzioni tali da creare difficoltà all’economia americana.
Eppure l’intelligence statunitense aveva scoperto da tempo il gioco di Putin. Biden era il solo a poter negoziare con Putin sui problemi della sicurezza. Cercare un accordo in proposito – magari arrivando a stabilire uno status dell’Ucraina condiviso da Mosca – era una delle possibili alternative per evitare la guerra.
L’ altra opzione sarebbe stata l’unica vera sanzione per il Cremlino: rompere gli indugi e cooptare l’Ucraina nella Nato in modo che Putin sapesse con chi avrebbe avuto a che fare. Ma la guida del mondo libero non è più quella di una volta. Non è più quella dei quindici mesi (1948-1949) del ponte aereo per rifornire di generi alimentari e di ogni altro prodotto necessario alla sopravvivenza della popolazione di Berlino Ovest, circondata dai sovietici; né quella che difese la Corea del Sud e neppure quella dei 13 giorni della crisi di Cuba. Per non parlare del Kosovo, dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Joe Biden deve fare i conti con le elezioni di medio termine e con un Partito democratico nel quale la nuova sinistra radicale si allea con gli estremisti repubblicani contro la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto.
Si fa un gran parlare della ritrovata compattezza dell’Occidente, dimenticando che in Europa (adesso comprendiamo le ragioni di certi aiuti anche finanziari ad alcune forze politiche) Putin ha disseminato in alcuni Paesi, dove si andrà a votare, delle quinte colonne che potrebbero vincere le elezioni o condizionare comunque la politica estera. Siamo sempre lì. Arriva un momento, nella storia, in cui alle democrazie viene chiesto se sono disposte a morire per Danzica.