Cultura della solitudineLa scienza di noi e l’arte di perdersi e ritrovarsi

Un viaggio da Oriente a Occidente, il salto da un imbroglio senza soluzione a un pomeriggio assonnato romano. Il romanzo di Stefano Pistolini (Elliot edizioni) combina ritmo e introspezione, incontri e riflessioni tessendo un racconto filosofico dalle svolte impreviste

di Andraz Lazic da Unsplash

In Corea c’è uno stile di vita assai contemporaneo chiamato Honjok: significa vivere da soli senza sentirsi soli, senza temere la solitudine, anzi facendo di questa condizione la base della propria indipendenza. Totale libertà di scelte ed economie interamente concentrate su se stessi. La traduzione di Honjok può essere “tribù di una sola persona” e nelle metropoli coreane adesso questa è una vera sottocultura della solitudine, un inno al dedicarsi soltanto ai propri bisogni e all’adempimento dei desideri.

Mi viene in mente che Anna e io siamo due casi diversi di Honjok. Entrambi abbiamo scelto un’esistenza solitaria, entrambi ci siamo procurati un’ambientazione protetta come strumento per andare incontro alla maturità. Entrambi abbiamo codificato dei metodi di sopravvivenza, che ci hanno permesso di restare a galla con dignità. Entrambi abbiamo conquistato un’autonomia faticata. Entrambi, credo di poterlo dire, abbiamo capito che la nostra esplorazione della solitudine è solo all’inizio.

Ma davanti alla sua richiesta d’informazioni è giusto che riveli qualcosa in più: «Allora: il posto di cui ti parlo è la Corea. Il lavoro è, ma sarebbe meglio dire era, in una finanziaria a capitale olandese. Consisteva nel sedere davanti a un computer e fungere da tramite e da suggeritore per gli interessi dell’azienda in quel Paese. Quanto al perché abbia scelto un’occupazione del genere, a distanza di anni direi che si è trattato di un modo per disinnescare una situazione personale che mi stava risucchiando, rischiando di farmi male. Peraltro non avevo niente di serio che mi trattenesse qui. Diciamo che a Roma ho vissuto senza costrutto e con poco godimento. Così ho approfittato dell’occasione, del treno che passa solo una volta, e sono montato in corsa, senza pensarci troppo.

Laggiù ho trascorso tanto tempo con una relativa consapevolezza, vivendo col pilota automatico, come su un altro pianeta, adattandomi a regole, ritmi e abitudini locali. Con una fragile serenità, che avevo paura di incrinare. Così poco alla volta è emerso un secondo “me”, una persona silenziosa e flemmatica, proiettata nella solitudine, appagata dall’essere un volto nella folla e un cultore dell’arte del guardare. Non so dirti se ho sbagliato o no, se è stato bello, interessante, o solo inutile. Perché ho vissuto questo tempo in una piacevole apnea, nella quale la ripetizione di certi gesti, certi riti, il susseguirsi di certe scadenze erano il mio calendario. Fin quando, senza che me ne accorgessi, qualcosa si è rotto. Senza esserne cosciente, ho invertito l’ordine dei fattori, modificato il progetto».

Smetto di parlare, perché mi stanno salendo pensieri angosciosi, stuzzicati da questo racconto. Già: io sono l’uomo che sbaglia. Il campione dei sensi di colpa. Quello che deve pagare per i suoi errori, ma prova a eclissarsi e cerca di rimandare il consuntivo finale. Faccio un sospiro. «Dai… risparmiami di dirti di più. La ferita è ancora aperta e so che ho commesso degli errori».

«Un errore in amore?» chiede lei a bruciapelo.

«Magari. Mi piacerebbe. Diciamo in affari, piuttosto. Denaro. Una voglia di avere, che ignoravo potesse possedermi… convinto com’ero d’aver imparato l’arte dell’essere. Comunque, il risultato è che adesso mi ritrovo qui».

«Scappi da qualcosa… o da qualcuno?».

«Diciamo di sì. E diciamo che ho fatto l’unica cosa che poteva evitarmi di finire in una situazione che non avrei saputo gestire».

«E da quanto sei qui? Scommetto pochissimo…».

«Vuoi proprio saperlo?». Alzo lo sguardo e incontro i suoi occhi che mi fissano con preoccupazione. «Sono arrivato oggi».

«Oggi!?». «Stamattina. Atterrato dal volo da Seul che fa scalo a Doha». «Stamattina… E l’amico che ti ospita?». «Me lo sono inventato, per non sembrarti un disperato.

Non c’è nessun amico. Non mi ospita nessuno. Non ho più contatti qui, almeno per adesso. Devo ricominciare tutto da capo».

«Cioè sei arrivato e… senza bagaglio?».

«Ho un paio di valigie a Fiumicino, al deposito. Le andrò a prendere domani. Prima devo sistemarmi».

«Cioè non hai nemmeno una stanza in albergo?».

«La stavo cercando, quando sono passato davanti a Santa Croce in Gerusalemme. Non ho resistito e, senza sapere perché, sono entrato. Ma una stanza in albergo si trova. Tra poco andrò via di qui e ne cercherò una».

Ha le mani in grembo, mi guarda come una professoressa che cerca di comprendere in quale impiccio si sia ficcato lo studente a cui vuol bene. «Quindi sei qui da solo, senza legami o conoscenze e senza bagaglio… be’, devo dire che è una storia notevole… E il lavoro laggiù? Come hai fatto?».

«Il mio lavoro non esiste più. Potrei avere dei risparmi, ma non ne sono sicuro. Sarà un problema col quale farò i conti da domani».

Mi contempla, nemmeno fossi un coleottero finito nella retina dell’entomologo. Si appoggia allo schienale del divano dov’è seduta, mentre io resto rannicchiato sulla punta dell’unica poltrona. Direi che sta analizzando il mio caso.«Non c’è che dire, sei un uomo sorprendente. Non riesco neanche a immaginare che genere di pasticcio tu possa aver combinato, là in Corea… dev’essere qualcosa di grosso. Ma poiché mi sono fidata di te dal primo momento che ti ho visto, mi schiero dalla tua parte e ti concedo tutte le attenuanti possibili. Devi aver passato giornate convulse. La tua casa, l’hai lasciata?».

«Sì, di corsa. Diciamo che non prevedo di tornarci, nel prossimo futuro. Non ho nemmeno ancora fatto l’inventario delle questioni lasciate aperte di cui dovrò occuparmi, prima che la Corea dichiari guerra all’Italia, se non mi restituisce in catene. Ma non preoccuparti: ti assicuro che i pasticci che ho fatto non hanno riflessi che potrebbero spaventarti. Quando ci ho riflettuto, per capire cosa diavolo avessi combinato, ho finito per classificarli come prodotti di un’ossessione. Quel genere di cose che ti succedono se lavori troppo a lungo in una cava di diamanti: difficile mantenersi estranei alla materia prima… è a portata di mano, ti disgusta e ti affascina, al tempo stesso. Nei fatti, comunque, si è trattato di una serie di giochi proibiti realizzati coi numeri, proprio come si vede in quei film sulle truffe. Stavolta era tutto vero e la truffa non era nemmeno così grande».

da “La scienza di noi”, di Stefano Pistolini, Elliot edizioni, 2022 pagine 176, euro 16

© 2022 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione

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