Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.
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Una delle regole d’oro della democrazia è il diritto-dovere di criticare e analizzare fino al dettaglio ogni singola dichiarazione, azione e visione dei politici che la rappresentano. Ma chi parla di Unione europea non lo ricorda mai e per questo si affligge ogni volta che i cittadini si lamentano quando le cose vanno male e si indispettisce se non vede folle festanti cantare l’inno alla gioia quando le cose vanno bene.
Le lodi sperticate dei media, l’assenza di opposizione e il silenzio delle persone comuni vale solo per le dittature e le autocrazie che conquistano questo privilegio con la forza e la paura. La critica è l’essenza della democrazia. Senza, non si può rendere trasparente quel dibattito nell’opinione pubblica che ci permette di conoscere per deliberare.
Per questo motivo è giusto criticare aspramente quello che non va. Come le tante difficoltà che ha incontrato nella prima fase la Conferenza sul futuro dell’Europa, la serie di eventi organizzati da Commissione, Europarlamento e Consiglio dal 9 maggio del 2021 alla primavera del 2022 per ascoltare le proposte della società civile, dei governi locali e dei cittadini comuni su come riformare l’Unione. Questo grande dibattito paneuropeo è un’idea nuova e fresca per cambiare le istituzioni Ue “dal basso” (è dal Trattato di Lisbona del 2007 che non si modificano ufficialmente le regole comuni), ma come sempre succede con le cose organizzate dall’alto, ha rischiato di coinvolgere solo gli addetti ai lavori.
È giusto anche criticare il funzionamento della piattaforma online e multilingue della Conferenza, che nelle buone intenzioni avrebbe dovuto invogliare gli oltre 447 milioni di cittadini europei a proporre e condividere le riforme, ma che invece – complici la poca pubblicità nei canali che contano (qui trovate un nostro tutorial su come iscriversi e inserire le idee) nei primi sei mesi non si è fatta conoscere al meglio.
Ecco perché Linkiesta ha deciso di lanciare Europa Futura: cinque incontri su Instagram e Facebook per far conoscere le potenzialità inespresse e le occasioni da non perdere della Conferenza sul futuro dell’Europa. Un modo per far dialogare le associazioni giovanili, ambientali, culturali e sociali con gli eurodeputati. Abbiamo presentato proposte concrete su ambiente, democrazia, giovani, istruzione e salute e intervistato alcuni tra gli 800 cittadini che partecipano alla Conferenza sul futuro dell’Europa per capire cosa ha funzionato e cosa può essere migliorato.
Come per esempio la scelta delle istituzioni europee di non rendere vincolanti le riforme dei cittadini. Le idee più interessanti saranno inserite in una relazione inviata a Commissione, Parlamento europeo e Consiglio, rimandando a un generico “vedremo” le proposte discusse.
Si può e si deve criticare, dicevamo. Ma, mentre si esercita questo sano diritto, bisogna ricordarsi di un piccolo dettaglio significativo: con tutti suoi difetti l’Unione europea è l’unica a tentare un esperimento democratico del genere. Non lo fa la Cina di Xi Jinping, non lo fa la Russia di Vladimir Putin, non lo fa la Corea del Nord di Kim Jong-un. E non lo fanno neanche gli Stati Uniti, la più importante democrazia del mondo, o il Regno Unito post Brexit.
Può essere ignorata, può rivelarsi un flop, può ripetere gli stessi errori di comunicazione di tanti altri progetti falliti in passato, ma la piattaforma democratica che l’Unione europea ha scelto di creare è unica nel suo genere. E, perché no?, dopo il 2022 questo esperimento potrebbe diventare un’arena permanente, riunendo ogni due o tre anni politici, imprenditori, artisti e cittadini, come ha proposto l’eurodeputato Guy Verhofstadt, che è vice-presidente della Conferenza nonché co-presidente del suo comitato esecutivo e che ha mille altri incarichi nel contesto di questa stessa iniziativa.
L’Unione europea, che si mostra così democratica in questo progetto ambizioso, non riesce però a risolvere la sua più antipatica contraddizione: la regola dell’unanimità. Con un veto, un singolo Paese su 27 può bloccare qualsiasi tentativo di integrazione nel Consiglio europeo.
Non stiamo parlando del genuino incontro-scontro tra Stati per trovare una sintesi nelle emergenze, né del lavoro di concertazione quotidiano che fanno decine di ministri nel Consiglio e centinaia di deputati nel Parlamento europeo sulle piccole e grandi questioni.
Parliamo dell’impotenza dell’Unione nel condannare uno dei suoi Stati membri quando non rispetta i principi basilari della democrazia. Tradotto: l’Ungheria che discrimina le persone LGBTI o la Polonia che sottomette la magistratura al controllo del governo e vieta l’aborto. Oppure entrambe per la violazione sistematica dell’indipendenza dei media, della libertà di espressione, dei diritti delle minoranze e dei rifugiati.
Gli strumenti democratici esistono già. Sia contro la Polonia sia contro l’Ungheria è stata attivata la procedura dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea, che permette con un lungo iter ai due terzi del Consiglio e ai due terzi del Parlamento di sospendere il diritto di voto per il Paese Ue che viola in modo grave e persistente i principi europei. Così come esistono da pochi mesi nuovi strumenti per bloccare i fondi per violazione dello Stato di diritto. Quello che manca è la volontà politica di creare una frattura chiara e trasparente tra una maggioranza democratica e una minoranza di Paesi irriducibili e sempre più autoritari che gode dei benefici del mercato unico ma non rispetta i valori fondamentali europei.
Certo, possiamo sperare che col tempo Ungheria e Polonia cambino le loro classi dirigenti e che di colpo cancellino col bianchetto le riforme autoritarie fatte in questi anni. Possiamo sperare che con opposizioni deboli, mass media sempre meno indipendenti e giudici nominati dal governo la mentalità cambi di colpo. Ma quante volte si è tornati indietro nella storia in modo incruento? Nessuno chiede soluzioni autoritarie per combattere gli autoritarismi. Ma i leader europei di oggi hanno il dovere di lanciare un messaggio chiaro e semplice ai loro cittadini e al mondo intero, creando un solco politico: di qua la democrazia, di là le dittature. Poi ognuno deciderà da che parte stare.
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