Solo un paio di anni fa ci si presentava in ufficio il lunedì e la settimana finiva venerdì. Cinque giorni composti di circa otto ore. Nonostante la tecnologia, nonostante i computer e gli smartphone, non ci si era mai scostati da questo paradigma apparentemente inossidabile.
Solo un paio di anni fa, quando l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiarava il primo lockdown e imponeva alle aziende l’uso dello smartworking, la maggior parte dell’opinione pubblica la riteneva una misura temporanea, emergenziale.
Nessuno poteva immaginare che la pandemia avrebbe imposto un cambio di paradigma così radicale e che dello smartworking non si sarebbe più riusciti a fare a meno. Le nuove generazioni, che cominciano adesso a delineare una propria identità professionale, sono tra le categorie più esposte alla transizione.
Linkiesta ha discusso di questi temi al centro Brera di via Formentini a Milano, insieme a diversi esperti del settore, in occasione del primo anno del progetto Sphera, un progetto finanziato dalla Commissione europea e realizzato con altri 9 media partner europei, tra cui il francese Street Press, lo spagnolo El Salto Diario, l’austriaco Metropole e il polacco Outriders per raccontare con brevi video i temi più interessanti per i millennial e la Generazione Z.
Tra i temi trattati da Linkiesta c’è anche il fenomeno del diritto alla disconnessione: moltissime aziende hanno approfittato del lavoro da casa per abusare della disponibilità e della reperibilità dei dipendenti, allungano e diluendo gli orari talvolta anche nei fine settimana.
Ma secondo il professor Paolo Iacci dell’università Statale di Milano, autore del volume Dialogo sul lavoro e la felicità insieme a Umberto Galimberti (Egea), lo smartworking risponde a un’urgenza di felicità. I giovani sono disposti anche a lavorare di più, eventualmente, perché in cambio hanno ricevuto il privilegio della riappropriazione degli spazi, dell’autonomia, della zona di comfort.
Questo tipo di urgenza, ha detto il professore, «irrompe nei luoghi di lavoro», perché rappresentano la prima nonché la principale occasione di socialità della vita adulta. Il rifiuto della presenza in ufficio per tornare a una dimensione privata e personale è l’estensione di una ricerca di felicità che dovrebbe invece collimare con il lavoro, non prescindere da esso.
Nel 2020 abbiamo assistito all’ondata di rientri al Sud da parte di ragazzi e ragazze che, oltre a risparmiare sull’affitto, in questo modo vivono accanto alle famiglie e agli amici d’infanzia. Uno studio della Deloitte Global 2021 Millennial and Gen Z Survey ha evidenziato che un quarto dei giovani vorrebbe, per il proprio futuro, ridurre ancora di più il numero di ore in ufficio.
In effetti, è una direzione che sembra avere investito l’intero mondo occidentale: l’esperimento relativo alla settimana corta, ovvero la possibilità di spalmare le proprie mansioni su quattro giorni invece che su cinque, è già stato adottato in Belgio, Spagna e in vari paesi dell’Europa del nord – Finlandia, Scozia e Islanda.
La pandemia, dunque, ha solo tolto il tappo a un’insoddisfazione e a una depressione diffuse su più fronti nel tradizionale approccio delle persone con il lavoro.
Lavorare sempre meno? È questo l’obiettivo, la pulsione malcelata delle nuove generazioni? Non proprio.
Federica Mutti, digital content creator, 26 anni, si guadagna da vivere grazie a Youtube. Figlia di due dipendenti aziendali, considerava utopica l’ipotesi di inventarsi un mestiere e rendere conto soltanto a se stessa.
Sono sempre di più i giovani che si dedicano all’imprenditorialità digitale attraverso le start-up, oppure coloro che trovano successo sui social attraverso la narrazione di sé, come Federica: il suo primo video su Youtube era dedicato al racconto dei suoi ultimi giorni da universitaria, quando doveva decidere quale strada avrebbe intrapreso e cosa avrebbe fatto da grande.
«Il lavoro non vuole più essere qualcosa di dettato dall’alto da parte di qualcuno che ci controlla. Siccome ci siamo resi conto che fa così tanto parte delle nostre vite e prende così tanto spazio, i giovani vogliono mettere tutto quello sforzo e tutta quella passione per qualcosa che abbia un significato».
Non si tratta quindi di un puro e semplice anelito alla libertà dopo decenni di “schiavismo” aziendale. Semplicemente, le nuove generazioni hanno bisogno di senso.
L’alienazione che molto spesso il lavoro produce e che il filosofo Gilles Deleuze denunciava già nel secolo scorso, ha trovato un suo prevedibile riscatto nell’individualismo di massa. I social amplificano questo fenomeno perché consentono potenzialmente a tutti di sentirsi capi di se stessi. La percezione, o l’illusione, di contribuire fattivamente a un progetto, a un’idea, a un risultato, lenisce la sensazione di smarrimento e di inutilità che i giovani avvertono, non solo a causa del periodo storico, ma anche in virtù della società iper connessa di oggi, per la quale certe dinamiche lavorative sono ormai vetuste.
I segnali all’orizzonte potrebbero essere favorevoli in questo senso: Francesco Armillei, economista della London School of Economics, ha analizzato i dati della great resignation o “grandi dimissioni”, fenomeno in voga negli Stati Uniti, e ha notato come la maggior parte dei lavoratori che ha presentato le dimissioni ha tra i 50 e i 60 anni. Un dato diverso dal mito dei giovani che lasciano il lavoro per aprire un chiringuito in una isola caraibica.
Il covid19 ha rinvigorito la necessità di un ritorno a sé anche nella popolazione più anziana, traghettandola verso un pensionamento anticipato. Se avvenisse anche in Italia, potrebbe aiutare significativamente i giovani a collocarsi in un mercato del lavoro a oggi saturo.
Allora lo smartworking è davvero un’occasione per essere tutti più felici? In realtà, al momento è il sintomo di un meccanismo che si è inceppato e che non funziona più già da prima dell’avvento della pandemia. Rompere i rapporti con i colleghi riducendo tutte le occasioni di incontro alle riunioni virtuali svilisce definitivamente il concetto di comunità. Il bisogno impellente di autogestione non sarà semplicemente la reazione a un mondo del lavoro che non risponde più alle esigenze della popolazione, e che va dunque ripensato?