Pochi lo sanno, ma nei sondaggi internazionali sul benessere generale l’Italia è un Paese che si considera abbastanza felice: i numeri arrivano al 25%. Quando però si considera l’ambito lavorativo, la percezione però crolla fino al 5%. Come è possibile? Come si spiega questa differenza? È per rispondere a questa domanda, e a molte altre, che l’esperto di lavoro Paolo Iacci e il filosofo Umberto Galimberti hanno imbastito un confronto, raccolto e pubblicato da Egea: “Dialogo sul lavoro e la felicità”. Una discussione su lavoro e felicità – o meglio: sull’infelicità causata dal lavoro e dai modi con cui ci si può salvare.
«Un altra cosa che ci ha spinto a ragionare sul tema», spiega Iacci a Linkiesta, «è il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”. In Italia 700mila persone hanno scelto di lasciare il loro impiego. Sono tantissimi, soprattutto se si conidera la grande rigidità del mercato del lavoro italiano». È il sintomo di un disagio profondo, «di un malessere generale che del resto emergeva anche da altri indicatori: ad esempio la disoccupazione giovanile, che è balzata a novembre quasi al 30%, oppure il fatto che tra gli over 50 solo uno su quattro riesce a ricollocarsi».
Ma la novità è che si assiste a un ripensamento del lavoro, del suo ruolo e della sua importanza nella vita di ciascuno. In parte è dovuto «alla pandemia. Ha spinto ciascuno a riflettere sulle sue priorità. Ci si è scontrati con la propria vulnerabilità: è finita l’illusione per cui ci si pensava onnipotenti. La finitezza, toccata con mano con le morti e con le restrizioni di questi mesi, ha portato a galla molte domande». E molte riguardano il lavoro, che «da mezzo di sviluppo e di benessere è diventato un ostacolo e un problema per la realizzazione personale». Per questo «molti si stanno ritraendo da un mondo del lavoro poco attento alle necessità del singolo» perché «si è abbassata la soglia di tolleranza verso l’infelicità lavorativa».
Ma perché si riconsidera proprio il lavoro? «La pandemia, come si è detto più volte, ha enfatizzato elementi già presenti. Tra questi c’è il fatto che il lavoro non è mai centrale nel dibattito pubblico, se ne parla poco e ci si concentra su pensioni e ammortizzatori sociali». Eppure da tempo «c’è una fortissima richiesta di significatività sui luoghi di lavoro», cioè «si chiede senso – che viene espresso con la parola “felicità”, ma vuol dire in realtà autonomia e libertà».
Nel dialogo tra Iacci e Galimberti, ricco di suggestioni e riferimenti («Abbiamo toccato tutti i punti, cercando di condensarli nelle pagine del libro»), la concezione di felicità è attiva. Ripresa dalla tradizione antica, è la possibilità di realizzare se stessi e trovarsi bene nell’ambiente in cui si vive. Ma per realizzarsi, spiegano, bisogna conoscere bene la propria natura (cosa in sé già molto difficile e ostacolata dalla cultura contemporanea del lavoro) e seguire la cosiddetta vocazione, quella che veniva chiamata dai giapponesi «il messaggio dell’imperatore». È da qui che si può costruire una versione della propria vita lavorativa in linea con se stessi.
«Il lavoro è il primo momento di relazione sociale adulta», forse anche l’ultimo. È parte fondamentale dell’essere umano, che non può restare senza attività e non può non desiderare di svolgerla nel migliore dei modi. «Quando sono stato ad Auschwitz ho compreso che per annientare la personalità di qualcuno bisogna dileggiare il lavoro». E anche lo scrittore Primo Levi raccontava, con stupore, come gli stessi prigionieri del Lager si impegnassero a fare bene i compiti che venivano assegnati. «Questo perché il lavoro non è una sovrastruttura, bensì un dato originario interno. Ora ci si chiede come si faccia a essere felici malgrado, nonostante o dopo il lavoro: ma la verità è che dobbiamo essere felici nel lavoro. Perché il lavoro è elemento originario dell’identità».
La prospettiva invece è quella di un progressivo affrancamento dal lavoro: la tecnologia si sostituirà all’uomo, ne assumerà le fatiche e i compiti. Sarà un passo in avanti? «C’è chi vede la tecnica come un aspetto palingenetico, grazie al quale l’umanità sarà libera dalla fatica. Ma non è positivo, perché il lavoro fa parte della natura umana. Anzi, va detto con chiarezza il lavoro è l’unica possibilità di realizzazione possibile per gli esseri umani. Sfuggire a questo significa condannarsi all’infelicità».
È in questo spazio ristretto, ricavato da quanto concede a ciascuno l’epoca della tecnica, che bisogna far partire l’indagine su di sé, capire le proprie priorità, scoprire la natura profonda e svelare le vocazioni (ma non sarà facile, perché «il tuo primo nemico sei tu»), anche in rapporto all’ambiente vicino. A quel punto si dovrà scegliere il lavoro più adatto e giusto, che non sarà fonte di infelicità.
Serve un cambio di cultura: è questo il senso profondo del libro. «Le giovani generazioni ci guardano in silenzio e ci giudicano. Non parlano, ma vedono che non stiamo dando loro un futuro buono: il pianeta è malconcio e non c’è possibilità di un lavoro liberato». È qui che i più giovani, senza prospettive, riprendono in mano «la possibilità di un destino. Galimberti li chiama “nichilisti attivi. Sono teenager che incarnano i venti di contestazione attuali e su cui dovremo misurarci».