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Oltre le grandi dimissioniPer lavorare bene, serve essere un po’ filosofi: parola di Tlon

L’applicazione dei metodi del pensiero antico e contemporaneo aiuta a superare momenti di difficoltà o a trovare la propria vocazione. «Siamo una società che non presta attenzione all’interiorità», spiega Maura Gancitano, che insieme ad Andrea Colamedici ha fondato la scuola filosofica Tlon. Ma esistono modi per conoscere meglio se stessi e capire la strada giusta per ciascuno

(Unsplash)

È difficile misurare lo sconvolgimento portato dalla pandemia nel mondo del lavoro. Oltre allo smart working e alla digitalizzazione a tappe forzate, sono cambiati i punti di riferimento, i legami, le aspettative. Pochi si aspettavano il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”, anche se da tempo si parla di nuovi approcci e nuove forme di leadership, e in generale si registra una profonda stanchezza, fisica e mentale.

Può capitare che «dopo ore passate su Zoom in videoconferenza ci si senta estenuati, e ci si chieda perché. O che ci si scopra inadatti, o peggio ancora “non funzionanti”», spiega Maura Gancitano, che insieme ad Andrea Colamedici ha fondato il progetto Tlon. Un progetto che è insieme scuola di filosofia, casa editrice, libreria teatro, piano di divulgazione, dal grande seguito social (qui il profilo Instagram) e con un metodo collaudato: riutilizzare gli strumenti della filosofia, antica e contemporanea, per fornire un percorso di fioritura personale e affrontare i problemi di ciascuno, anche quelli quotidiani.

Ma la filosofia può aiutare sul luogo di lavoro? Come ci si deve comportare in questi momenti di spossatezza o di smarrimento? Come spesso capita, più che la risposta conta la domanda. O meglio, ne contano altre, che bisogna porsi prima. «Che desideri si hanno sul lavoro? Quali valori si coltivano? E perché proprio quelli?», dice Maura Gancitano.

Il piano individuale e quello collettivo si confondono spesso e capita che si assorbano aspettative e comportamenti (ed esigenze su di sé) indotti dalla società. «Non sentirsi “funzionanti” è proprio questo. Si è fatta propria una imposizione esteriore, che ha immesso come valore l’efficienza della produzione», in una catena di azioni in cui l’individuo si inserisce come un ingranaggio, fino a contraddire anche la propria natura. «Lo dimostrano alcuni studi di neuroscienziati. Già sapere che esistono queste ricerche è, a nostro avviso, un passo in avanti: aiuta a non sentirsi sbagliati, o limitati o – appunto – inadatti».

Ma non basta. Per capire cosa si vuol fare, scegliere la strada giusta, comprendere le proprie preferenze (lascio questo lavoro o resto?), serve altro. «Come agire? Soppesare i pro e i contro, non solo quelli oggettivi, richiede una buona conoscenza della propria vocazione e dei propri desideri. Il problema è che noi, come società, non siamo educati a riconoscerli. Tendiamo invece a ripetere i valori altrui, quelli dominanti».

Per auto-scoprirsi, i metodi della filosofia possono essere d’aiuto. «Noi chiediamo di raccontare la propria giornata, come faceva già Marco Aurelio. Ma non deve essere un classico diario. Le cose vanno invece raccontate dall’ultima alla prima, a ritroso», spiega Gancitano.

Quella che sembra una curiosa inversione cronologica permette di scardinare un meccanismo consolidato di ripetizioni e conseguenze. Partire dalla fine «fa emergere il senso delle nostre azioni, ci fa vedere i risultati di ciò che facciamo e le sue vere cause. Mostra ciò che vogliamo davvero quando cominciamo un’azione, e se l’esito di quest’azione corrisponde a quello che ci eravamo proposti. In altre parole, svela i nostri valori e svela anche noi stessi, quello che abbiamo fatto e quello che siamo stati». Si ha, d’improvviso, un nuovo panorama di sé, «che aiuta a capire quali cambiamenti fare e in quale direzione».

A influire su scelte e comportamenti sono anche – ormai – i social. Una dimensione ineludibile che ha effetti anche a livello lavorativo. «I social non sono neutri. Ma piattaforme private pensate per trarre profitto. In più sono ambienti con altre persone, e quando ci sono gli altri – con le loro idee, i pregiudizi, gli umori – non esiste la neutralità». Di sicuro costituiscono «il luogo di incontro più grande del mondo, dove si incontrano persone anche molto lontane da quello che sarebbe il proprio raggio fisico o sociale».

Un enorme palazzo che, però, «non sappiamo abitare bene. Si evitano le sorprese, ci si rifugia in bolle – caratterizzati da verità di gruppo che non devono essere messe in dubbio – e a causa dell’effetto alone (si vede solo quello che l’utente sceglie di mostrare di sé) si coltivano com-paranoie, cioè paranoie derivanti dal confronto». Un’occasione che rischia di essere sprecata, in poche parole.

«Se si parla di lavoro il social di riferimento è LinkedIn», spiega, «quello che in uno dei nostri articoli abbiamo definito come “la fiera dell’inautenticità”». Lì il comportamento dominante è cercare di apparire geniali, di vendersi il più e il meglio possibile. In quanto social, anche LinkedIn è un fondale su cui ognuno proietta un’immagine costruita di sé. «Uno spazio focalizzato sul lavoro e sui temi del lavoro potrebbe venire impiegato in modo più utile, ad esempio discutendo di problemi e questioni precise. Potrebbe essere un luogo di dialogo dove il contributo di più utenti potrebbe fornire esperienze, consigli e perfino soluzioni», sia per gli individui che lavorano già sia per quelli che lo cercano.

Invece si preferisce usarlo come vetrina personale, occasione per decantare, anche esagerando, i propri meriti, nel tentativo di dimostrare che si è idonei, adatti, giusti per lavorare. O volendo, «funzionanti».

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