Il Metaverso è già passato di moda: da oggi, la nuova scommessa di internet si chiama Web3 (ma le due cose potrebbero compenetrarsi).
Nulla di nuovo sotto il sole; almeno, dal punto di vista nominale. Il termine Web3 non fa altro che indicare, in maniera tassonomica, la terza generazione di internet, che sui libri di storia dell’informatica viene generalmente diviso in due epoche. L’avvento della seconda era, quella del web 2.0 (“web dinamico”), viene datato all’inizio degli anni Duemila e identifica un preciso approccio alla rete, quello della svolta legata alla maggiore condivisione. I social network incarnano appieno i tratti del cosiddetto web 2.0, che prende gradualmente il posto del primo web, quello degli anni Novanta caratterizzato dalla scarsa interazione con l’utente (l’internet degli albori prevedeva solo una normale navigazione ipertestuale tra le pagine, l’uso delle e-mail e dei motori di ricerca).
Era quindi prevedibile che, prima o poi, sarebbe arrivato il momento di un Web 3.0. Ma di cosa si tratterà? Difficile dirlo con esattezza, ma nelle ultime due settimane quest’idea ha trovato forma in qualcosa di tangibile: un nuovo spazio virtuale all’interno del quale gli utenti riacquisterebbero potere a discapito dei principali colossi tech della Silicon Valley. Il tutto, con il supporto della tecnologia blockchain.
La blockchain fu introdotta nel 2008 da Satoshi Nakamoto, l’ignoto pseudonimo a cui si deve anche l’invenzione dei bitcoin, il cui funzionamento si basa proprio su questa tecnologia. Con blockchain si intende una famiglia di tecnologie caratterizzate da un registro digitale strutturato come una catena di blocchi in grado di contenere transizioni. Il consenso a queste transizioni è distribuito sui nodi della rete e tutti i nodi possono partecipare al processo di validazione delle transizioni stesse; un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario. Nel 2021, a livello mondiale, si sono registrate 370 iniziative di blockchain sviluppate da aziende e pubbliche amministrazioni, il 39% in più rispetto al 2020. D’altra parte, se a fine 2014 un solo bitcoin valeva circa 400 dollari, oggi il suo valore ammonta a 38mila dollari. Con buona pace di chi, all’epoca, aveva pensato di investirci e poi non l’ha fatto.
La traiettoria futura di questa tecnologia, a ogni modo, sembra chiamarsi Web3. Ma in cosa consisterà? Web3 sarà una sorta di internet decentralizzato e dominato dagli utenti. La differenza con il modello attuale starebbe nel monopolio che al momento è nelle mani di poche società (i soliti nomi noti: dalla neonata Meta a Google, passando per Twitter). In questo nuovo paradigma della rete digitale, la blockchain permetterebbe di creare un’infrastruttura in grado di offrire soluzioni di business indipendenti e basate, per l’appunto, su applicazioni decentralizzate.
Oggi la blockchain offre un ventaglio di possibilità ristretto: la maggior parte di esse riguarda l’acquisto e la vendita di prodotti; recentemente, con l’avvento degli Nft (non-fungible token) si può anche acquistare e vendere arte digitale, appezzamenti di terreno virtuali o oggetti collezionabili all’interno di videogiochi.
È probabile che il terzo stadio del web sarà basato su un concetto ben preciso: collezionare, vendere, comprare o speculare su artefatti digitali. La blockchain consente alle persone di creare il proprio denaro, senza dover chiedere il permesso di autorità governative o banche centrali.
I più ferventi sostenitori del Web3 sostengono che ciò consentirebbe di creare pressoché qualsiasi cosa in rete, senza dover fare affidamento su piattaforme esistenti come Google o Facebook o su servizi di cloud computing (come l’Amazon Web Service dell’azienda di Jeff Bezos). Soprattutto però – ed è qui la rivoluzione – i nuovi servizi sarebbero proprietà delle persone che li hanno realizzati e utilizzati.
Inoltre, c’è maggiore possibilità di profitto: oggi molte startup digitali che si lanciano in una nuova avventura nella rete si sentono ostacolate. La possibilità di dare vita ad aziende rilevanti è sempre più limitata dall’attuale oligopolio dei giganti della Silicon Valley, che possono inglobare o (all’occorrenza) distruggere i nuovi arrivati con estrema facilità. In questo senso, il Web3 stravolgerebbe le regole del gioco.
Non finisce qui. Quello che il Ceo di YouTube Susan Wojcicki ha ammesso essere «un’opportunità finora inimmaginabile per far crescere la connessione tra i creator e i loro fan» (in che modo è ancora tutto da capire) riguarda anche i timori illiberali destati negli ultimi anni dai moloch multimiliardari del web. In via del tutto ipotetica, nel Web3 Donald Trump verrebbe espulso da un social network simil-Twitter solo se gli utenti del sito (che ne sarebbero anche proprietari) fossero d’accordo, e non per una scelta arbitraria del Jack Dorsey di turno (o chi per lui).
Gli “evangelisti” del Web3 sono già moltissimi, ma non è tutto oro (digitale) quel che luccica. Innanzitutto, va ricordato che la tecnologia blockchain richiede moltissima potenza di calcolo per il mining di criptovalute e, per questo, è una pratica terribilmente inquinante per un mondo che sta cercando di trovare soluzioni alla crisi climatica.
Inoltre, proprio per la sua natura libera, un Web3 libero rifiuterebbe un controllo multicentralizzato. In questo modo però, si rischierebbero gravi implicazioni in termini di protezione dei consumatori. Non ci sarebbero megapiattaforme in grado di proteggere le risorse personali, il che si rivelerebbe un’arma a doppio taglio: maggiore autonomia per utenti ma, al contempo, anche un maggiore rischio di incappare nelle insidie del web, tra spiacevoli truffe e fughe di dati.