A meno che la politica non impazzisca, non ci sarà nessuna crisi di governo sulle spese militari ma di certo c’è un problema serio nel rapporto politico fra Pd e Cinquestelle. Conviene separare la cronaca dagli aspetti più di prospettiva.
Questi i fatti. Mercoledì prossimo al Senato si discuterà di Ucraina e come si sa Giuseppe Conte ha annunciato che i senatori del Movimento presenteranno un ordine del giorno contro l’aumento graduale delle spese militari (a favore del quale pure avevano votato solo pochi giorni fa alla Camera: quant’è bello il bicameralismo eh?).
Ma non sarà così. Il lavoro che la maggioranza sta facendo è quello di proporre un ordine del giorno abbastanza generico così da consentire a tutti i partiti che sostengono il governo Draghi di votarlo. Un modo per sterilizzare il dissenso grillino e opporsi al documento di Fratelli d’Italia che, come la tattica parlamentare insegna da decenni, proverà a incunearsi con un proprio ordine del giorno favorevole alle spese militari in quella che è comunque una spaccatura tra Cinquestelle e gli altri partiti di governo. Un ordine del giorno che verrà votato solo dai senatori meloniani, avendo la maggioranza votato il proprio. Fine della storia.
Ma è chiaro che il problema resta. E che si ripresenterà a luglio quando si discuteranno le tabelle del Documento di economia e finanza. «Una soluzione si troverà», ha detto un Enrico Letta impegnato a tenere dritta la barra dell’atlantismo (l’aumento delle spese militari è una decisione della Nato di otto anni fa confermata non più tardi di ieri dal presidente del Consiglio) e al tempo stesso attento a non lacerare i rapporti con il mondo della sinistra neutralista o comunque contrario ad una prospettiva di riarmo.
In attesa di capire se questo equilibrismo sarà consentito dall’evoluzione della guerra di Vladimir Putin all’Ucraina, c’è però da dire che alla luce delle minacce di Conte il problema del rapporto tra Pd e M5s comincia a non essere più sostenibile: non esiste da nessuna parte del mondo occidentale che un partito che esprime il ministro degli Esteri prenda posizione contro un tassello decisivo della politica dell’Alleanza Atlantica. E che quello stesso partito sia guidato, o non guidato, da un ex presidente del Consiglio che oggi straparla contro gli impegni assunti persino dai suoi due governi.
Si pone qui una questione, se non istituzionale (i governi alleati osservano perplessi queste piroette), sicuramente politica perché si sta minando la credibilità del governo Draghi in un momento drammatico come questo. E viene dunque in chiaro che, per quanto sia triste, il problema del quadro politico è ormai rappresentato dalla lotta tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, agli antipodi sul capitolo più importante, la politica estera e di difesa.
Il famoso “chiarimento” evocato da entrambi dopo la vicenda del Quirinale – si ricorderanno le gesta dell’avvocato in combutta con Salvini per portare al Colle il capo dei servizi segreti – non c’è mai stato: e d’altra parte, come si può tenere un dibattito in un “partito” dove i militanti non esistono più, i fedelissimi al massimo schiacciano un clic una volta l’anno, un vero gruppo dirigente non è mai entrato in campo, non c’è una sede di discussione vera, non esiste un’Assemblea nazionale, il capo carismatico Beppe Grillo è sparito, i gruppi parlamentari sembrano alunni in gita scolastica: a questo riguardo noi sappiamo, come tutti i giornalisti, che ministri e sottosegretari degli altri partiti quando cercano il M5s spesso non sanno nemmeno con chi parlare.
All’ingrosso, i dimaiani sono più consapevoli dei contiani, nel mare magnum della totale anarchia che consente a ogni parlamentare del Movimento di dire la qualunque. Ma è evidente che stando così le cose questo non è un partito di governo affidabile, da un momento all’altro può cambiare totalmente idea e volto così come il dottor Jekyll, bevuta la pozione, diventava Mr. Hyde: «Pensavo fosse follia – disse mentre riponeva in cassaforte le odiate carte – ma comincio a temere che si tratti di un’infamia» (Robert Louis Stevenson, 1886).
Il Pd ormai ha capito – ci ha messo un po’ ma pazienza – con chi ha a che fare, solo che ha paura di alzare la voce. Di pretendere un chiarimento di fondo. Invece l’atteggiamento del Nazareno verso i grillini è come di sopportazione, di fatale accettazione di una croce da portare sul calvario della politica, senza mai provare a chiedere a Conte di uscire dalle ambigue estemporaneità che costituiscono l’alfa e l’omega del suo fare politica.
Si sta perdendo tempo, le elezioni sono dopodomani: e con questi alleati “non vinceremo mai”, morettianamente. E dunque si finisce col ricorrere ai pur legittimi trucchi parlamentari per scansare i problemi mettendo la polvere sotto il tappeto e rinviare una scelta di fondo: si può stare con dottor Jekyll-Mr. Hyde?