A tre settimane dall’inizio della guerra di Vladimir Putin da noi l’unità nazionale regge e, anzi, si consolida. L’Italia c’è. E non a chiacchiere – quelle le fanno i neutralisti-decesaristi nei talk show di La7 e di Bianca Berlinguer – ma con precisi atti politici. Il né né resta fuori dai palazzi della politica, il nostro Paese è schierato con Kiev.
Alle volte ci sono dei voti parlamentari che assumono un significato simbolico, oltre che pratico, molto forte: come quello di ieri a Montecitorio con il quale la Camera ha dato il suo via libera all’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, approvando un Ordine del giorno presentato dalla Lega Nord ma sottoscritto da tutti i partiti. Infatti i voti a favore sono stati 391 su 421 presenti con soli 19 voti contrari (Alternativa, gli ex grillini dibattistiani e i sinistri di Nicola Fratoianni).
È chiaro che si tratta di un segnale che va inquadrato nel deterioramento della situazione internazionale e che va spiegato con la consapevolezza unanime del Parlamento di accendere una forte luce sul capitolo della difesa. Ma non è un fulmine a ciel sereno – ci spiega Enrico Borghi (Pd), esperto della materia – bensì un atto in continuità con la decisione assunta addirittura nel vertice dell’Alleanza Atlantica in Galles nel 2014 (governo Renzi), quando si stabilì l’obiettivo di aumentare le spese militari, non solo in armamenti ma soprattutto in investimenti tecnologici adatti anche per uso civile, gradualmente fino al 2% del Pil.
Impegno ottemperato dai vari governi, tranne guarda caso il Conte I, con ministra della Difesa l’allora grillina Elisabetta Trenta. Il governo Draghi poi ha ripreso in mano la pratica.
Correttamente il leghista Roberto Paolo Ferradi ha ricordato «le parole del Presidente del Consiglio durante la sua comunicazione alle Camere dello scorso primo marzo, in cui ha ribadito che gli investimenti per la difesa dovranno crescere come mai è avvenuto nel passato, in questo Paese». Il voto di ieri insomma è coerente con il discorso di Mario Draghi.
Secondo i dati forniti dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini significa passare dai circa 25 miliardi l’anno odierni ad almeno 38 miliardi, il che vuol dire incrementare la spesa militare giornaliera da 68 milioni al giorno a 104 milioni. Va ancora sottolineato l’aspetto degli investimenti. Tutto ciò significa ricerca, occupazione, innovazione, produzione diretta.
Naturalmente la svolta del governo tedesco ha in un certo senso “aiutato” la decisione della Camera: «D’ora in poi – aveva detto il 28 febbraio scorso Olaf Scholz – la Germania investirà più del 2% del Pil nella nostra difesa». Per un partito pacifista come l’Spd si tratta di un cambiamento storico, ma per l’Europa è un segnale chiarissimo.
È evidente che il drammatico stallo sul terreno ucraino lascia aperte tutte le possibilità e un Paese serio deve tenere conto di qualunque sviluppo, considerando che già adesso l’Italia, al pari degli altri Paesi europei, sta sostenendo militarmente l’Ucraina e tiene alta l’attenzione dei comandi militari italiani. Soltanto gente che vive su un altro pianeta può meravigliarsi di fronte a una circolare dello Stato maggiore dell’Esercito, in cui si chiede di addestrare le forze armate italiane al combattimento nel quadro della situazione determinata con l’invasione russa dell’Ucraina.
Come al solito, la sinistra estrema (Rifondazione comunista, esiste ancora) ha tentato di scatenare una polemica su una questione che non esiste: «È normale – ha spiegato Guerini – che l’attività esercitativa che le Forze armate realizzano si continui a realizzare, e che si realizzi anche tenendo conto della contingenza nella quale ci troviamo». Sulla politica di difesa l’unità nazionale c’è e senza grandi problemi. Il neutralismo di qui non passa.