La guerra e il terroreLa catastrofe intellettuale di Vladimir Putin

L’attacco all’Ucraina, a differenza di quelli di epoca zarista e comunista, non ha dietro di sé un pensiero forte né offre un obiettivo di grandezza. Una debolezza strutturale che maschera la vera ragione del conflitto: la paura delle idee liberali. Un grande saggio di Paul Berman

AP Photo/Alexander Zemlianichenko

Vladimir Putin potrebbe essere uscito di senno, ma è anche possibile che abbia semplicemente osservato le cose attraverso una particolare lente che appartiene alla tradizione russa. E che abbia agito di conseguenza. Invadere i vicini non è, dopo tutto, una cosa inedita per un leader russo. È una cosa abituale. È senso pratico. È un’antica tradizione. Ma quando cerca una retorica aggiornata che riesca a spiegare a se stesso e al mondo le ragioni di quest’antica tradizione, Putin fa fatica a trovare qualcosa.

Si aggrappa a retoriche politiche che risalgono a tempi ormai lontani. E si disintegrano nelle sue mani. Fa dei discorsi e scopre di essere senza parole, o quasi. E questa potrebbe essere stata la prima battuta d’arresto, ben prima delle battute d’arresto patite dal suo esercito. Però non si tratta di un fallimento psicologico. Si tratta di un fallimento filosofico. Gli fa difetto un adeguato linguaggio per fare analisi: e, di conseguenza, gli fa difetto la lucidità.

Il problema che Putin sta cercando di risolvere è l’eterno dilemma russo, e cioè il vero «indovinello, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma» che Winston Churchill attribuì alla Russia (e che non sarebbe mai riuscito a risolvere, anche se riteneva che l’“interesse nazionale” offrisse una chiave). È il dilemma su che cosa fare riguardo a uno stranissimo e pericoloso squilibrio nella vita russa.

Lo squilibrio consiste nella coesistenza, da una parte, della grandeur della civiltà russa e della sua geografia (che costituisce un’enorme forza) e, dall’altra, di una strana e persistente incapacità di costruire uno Stato resiliente e affidabile (che costituisce un’enorme debolezza). Nel corso dei secoli i leader russi hanno cercato di affrontare questo squilibrio costruendo le più criminali fra le tirannie, nella speranza che la brutalità avrebbe compensato la carenza di resilienza. E hanno accompagnato la brutalità con una politica estera insolita, diversa da quella di qualunque altro Paese, una politica estera che sembrava servire allo scopo.

Grazie alla brutalità e all’insolita politica estera lo Stato russo è riuscito ad attraversare il XIX secolo senza collassare – e questo è stato un successo. Ma nel XX secolo lo Stato è collassato due volte. Il primo collasso, nel 1917, consentì l’ascesa al potere di estremisti, di pazzi e di alcune delle peggiori sciagure della storia del mondo. Nikita Chruščëv e Leonid Brežnev riportarono lo Stato a una condizione di stabilità.

Poi lo Stato russo crollò di nuovo. Il secondo collasso, nell’epoca di Michail Gorbačëv e Boris El’cin, non fu altrettanto disastroso. Eppure, l’impero scomparve, scoppiarono delle guerre lungo i confini meridionali della Russia, l’economia si disintegrò e crollò l’aspettativa di vita. Questa volta fu Putin a guidare la ripresa. In Cecenia lo fece con un grado di criminalità che qualifica soltanto lui, tra i combattenti dell’attuale guerra, per un’accusa di genocidio o qualcosa del genere.

Ma Putin non è stato più abile di Chruščëv e di Brežnev nel tentativo di raggiungere un successo definitivo, e cioè la creazione di uno Stato russo abbastanza solido e resiliente da evitare ulteriori collassi. La cosa lo preoccupa. Con tutta evidenza lo getta nel panico. E le sue preoccupazioni lo hanno condotto a considerare il problema dal punto di vista che in passato hanno adottato, uno dopo l’altro, tutti i suoi predecessori – un punto di vista che ha versioni diverse, ma che di fatto è sempre lo stesso.

Questo punto di vista è come una specie di paranoia climatica. Si tratta della paura che i princìpi caldi della filosofia liberale e delle pratiche repubblicane provenienti dall’Occidente, spostandosi verso Est, possano scontrarsi con le nubi ghiacciate dell’inverno russo e che da questa collisione nascano delle violente tempeste a cui nulla sopravvivrà. Si tratta, in breve, della convinzione secondo cui i pericoli per lo Stato russo sono esterni e ideologici e non interni e strutturali.

La prima di queste collisioni, quella originaria, prese una forma molto rozza e non ebbe le caratteristiche delle successive collisioni. Ma fu traumatica. Stiamo parlando dell’invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812, che mandò a sbattere la Rivoluzione francese, in una sua forma deteriorata e dittatoriale, contro il medievalismo congelato degli zar. La collisione tra la Rivoluzione francese e gli zar portò l’esercito francese fino all’incendio di Mosca e l’esercito zarista fino a Parigi.

Ma le collisioni tipiche, quelle che si sono verificate ripetutamente nel corso dei secoli, sono sempre state filosofiche, mentre gli aspetti militari sono rimasti confinati alla reazione russa. Un decennio dopo l’ingresso dell’esercito zarista a Parigi, una cerchia di aristocratici russi, influenzati dalla Rivoluzione francese e da quella americana, adottò delle idee liberali. E organizzò una cospirazione in nome di una nuova Russia liberale. Questi aristocratici furono arrestati ed esiliati e il loro progetto fu sbriciolato. Ma lo zar, che era allora Nicola I, non si fidò un granché della sua vittoria su di loro. E reagì adottando una politica che proteggesse per sempre, in un modo migliore, lo Stato russo dai rischi di sovvertimento.

Nel 1830 scoppiò una nuova rivoluzione francese che diffuse analoghe aspettative liberali qui e là in Europa, e soprattutto in Polonia. Nicola I si rese conto che un rivitalizzarsi del liberalismo ai confini del suo Paese era destinato a rinvigorire le cospirazioni degli aristocratici liberali arrestati ed esiliati. Reagì invadendo la Polonia. E, per buona misura, inghiottì lo Stato polacco, inglobandolo nell’impero zarista.

Nel 1848, in Francia, scoppiò un’altra rivoluzione, che condusse ad ancor più diffuse insurrezioni liberali e repubblicane in tutta Europa – si trattò quasi di una rivoluzione continentale, e fu un’indicazione chiara che in Europa stava cercando di emergere con tutte le forze una nuova civiltà, che non era più monarchica né feudale e che non avrebbe più ubbidito ai voleri di nessuna chiesa che esercitasse il potere in un dato luogo, una nuova civiltà fatta di diritti umani e di pensiero razionale. Ma la nuova civiltà era esattamente ciò che Nicola I aveva temuto. Lo zar reagì invadendo l’Ungheria. Queste due invasioni da lui condotte – quella della Polonia e quella dell’Ungheria – dal punto di vista di Nicola I furono guerre di difesa che avevano assunto la forma di guerra d’aggressione. Erano “operazioni militari speciali” progettate per impedire il diffondersi di idee sovversive in Russia grazie alla distruzione dei vicini rivoluzionari, con l’ulteriore speranza di estirpare le aspirazioni rivoluzionarie da un territorio ancora più vasto.

Le guerre ebbero successo. La rivoluzione continentale del 1848 andò incontro a una sconfitta continentale e Nicola I ebbe una parte importante in tutto questo. Fu il “gendarme d’Europa”. E lo Stato zarista durò per altre due o tre generazioni, finché tutto quello che Nicola I aveva temuto alla fine accadde davvero e l’ispirazione proveniente dai socialdemocratici tedeschi e da altre correnti liberali e rivoluzionarie dell’Occidente penetrò disastrosamente proprio nella sua Russia. Era il 1917. E lo zar era allora il suo bisnipote Nicola II.

Il fragile Stato russo andò a fondo. E riemerse come una dittatura comunista. Ma la dinamica di base rimase la stessa. Sui liberali e sulle correnti liberalizzatrici provenienti dall’Occidente Stalin aveva una visione identica a quella di Nicola I, anche se il vocabolario con cui Stalin esprimeva i suoi timori non era lo stesso usato dallo zar. Stalin si impegnò a distruggere ogni aspirazione liberale o liberalizzatrice in Unione Sovietica. Ma si impegnò a distruggerle anche in Germania – e anzi questo fu uno dei primi obiettivi della sua politica verso la Germania, che si prefiggeva di distruggere i socialdemocratici prima ancora che i nazisti. E lo fece anche in Spagna, durante la Guerra civile: lì la sua politica si prefiggeva di distruggere gli elementi non comunisti della sinistra spagnola altrettanto (se non più) che di distruggere i fascisti. Quando la Seconda guerra mondiale terminò, Stalin si impegnò a distruggere quelle stesse aspirazioni in tutte le parti d’Europa che erano cadute sotto il suo controllo. È vero che era uno squilibrato.

Ma anche Chruščëv, che non era uno squilibrato, si rivelò essere un Nicola I. Nel 1956, quando l’Ungheria comunista decise di esplorare delle possibilità vagamente liberali, Chruščëv individuò in questo un pericolo mortale per lo Stato russo e fece la stessa cosa che aveva fatto Nicola I. Invase l’Ungheria. Poi salì al potere Brežnev. E si rivelò uguale anche lui. Tra i leader comunisti della Cecoslovacchia si fece strada un impulso liberale. E Brežnev invase la Cecoslovacchia. Questi erano i precedenti quando Putin, nel 2008, decise l’invasione su piccola scala di una Georgia che era da poco diventata liberale e rivoluzionaria. E quando poi, nel 2014, decise l’invasione della Crimea, che faceva parte della rivoluzionaria Ucraina.

Ciascuna di queste invasioni del XIX, XX e XXI secolo avevano l’obiettivo di preservare lo Stato russo, impedendo che una brezza puramente filosofica di pensieri liberali e di esperimenti sociali potesse fluttuare al di là del confine. E gli stessi ragionamenti hanno condotto all’invasione più feroce di tutte, che è quella che sta avvenendo proprio ora.

L’unica differenza è che Putin si è imbattuto in un problema di linguaggio, o di retorica, che non aveva afflitto nessuno dei suoi predecessori. Nicola I, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, sapeva benissimo come descrivere le sue guerre contro le idee e i movimenti liberali dell’Europa Centrale. Lo faceva evocando i principi di un ideale monarchico mistico e ortodosso. Lui sapeva a favore di che cosa e contro che cosa si batteva. Era il campione della vera Cristianità e della tradizione consacrata ed era il nemico dell’ateismo satanico, dell’eresia e del disordine rivoluzionario.

I suoi princìpi suscitavano disgusto tra gli amici della Rivoluzione francese e di quella americana. Ma suscitavano rispetto e ammirazione tra gli amici dell’ideale monarchico e dell’ordine, che, anche grazie al suo aiuto, erano dominanti in Europa. I suoi princìpi erano nobili, solenni, grandiosi e profondi. Erano, per certi versi, dei princìpi universali e questo li rendeva degni della grandeur russa – erano dei princìpi buoni per l’intera umanità, sotto la guida della monarchia russa e della Chiesa ortodossa. Erano dei princìpi vivi, fondati nella realtà del tempo, benché fossero nascosti dietro il fumo e l’incenso, e ponevano lo zar e i suoi consiglieri nella posizione di pensare con lucidità e in modo strategico.

Anche Stalin, Chruščëv e Brežnev sapevano come descrivere le loro guerre contro i liberali e i sovversivi. Lo facevano invocando i princìpi del comunismo. Anche questi princìpi erano grandiosi e universali. Erano i princìpi del progresso umano – anche in questo caso sotto la guida della Russia – dei princìpi buoni per il mondo intero. Questi princìpi suscitavano sostegno e ammirazione in ogni Paese in cui c’era un forte partito comunista e talvolta anche fra i non comunisti, che accettavano l’argomentazione secondo cui le invasioni sovietiche erano antifasciste. Per queste ragioni, anche i princìpi comunisti erano altrettanto fondati nella realtà del tempo e questo metteva i leader comunisti nella posizione di fare i loro calcoli strategici con lucidità e sicurezza di sé.

E Putin, invece, a quale dottrina filosofica potrebbe appellarsi? I teorici putiniani avrebbero dovuto confezionargliene una, qualcosa di magnifico, che fosse capace di generare un linguaggio utile a sviluppare un pensiero sull’attuale situazione della Russia e sull’eterno dilemma dello Stato russo. Ma i teorici lo hanno deluso. Avrebbe dovuto farli fucilare. Forse questo fallimento non è davvero colpa loro, ma questa non è una buona ragione per non fucilarli. Non si può confezionare una dottrina filosofica a comando, nel modo in cui chi scrive i discorsi scrive un discorso. Le dottrine forti o ci sono o non ci sono. E così Putin ha dovuto arrabattarsi con le idee che galleggiavano qua e là, afferrandone una e poi un’altra per poi legarle insieme con un nodo.

Non ha tratto quasi niente dal comunismo, fatta eccezione per l’odio verso il nazismo che è rimasto dalla Seconda guerra mondiale. Anche lui ha posto molta enfasi sul suo antinazismo e questa enfasi ha avuto un ruolo importante nel suscitare quel supporto che Putin è riuscito a raccogliere fra i suoi compatrioti russi. Ma, per altri versi, l’antinazismo non è un punto di forza della sua dottrina. Negli ultimi anni, i neonazisti in Ucraina hanno avuto visibilità, anche se soltanto in forma di graffiti sul muro e di saltuarie manifestazioni di piazza. Ma non hanno avuto un ruolo né grande né piccolo. Hanno avuto un ruolo irrilevante e questo significa che l’enfasi di Putin sui neonazisti ucraini, che è utile per la sua popolarità in Russia, introduce però una rilevante distorsione nel suo pensiero.

E da qui proveniva l’aspettativa, che è stata delusa, secondo cui un gran numero di ucraini, spaventati dai neonazisti, avrebbe guardato con gratitudine i carrarmati russi che transitavano lungo le strade. Ma non c’è alcun altro elemento del comunismo che sopravvive nel suo pensiero. Al contrario, Putin ha ricordato con dispiacere come le dottrine comuniste ufficiali del passato avessero incoraggiato l’autonomia dell’Ucraina invece di incoraggiare la sua sottomissione nell’ambito di una più grande nazione russa. La posizione di Lenin su quella che era abitualmente definita “questione nazionale” non è la sua stessa posizione.

Dal mistico ideale monarchico degli zar, invece, Putin ha tratto molte cose. Ne ha tratto il senso di un’antica tradizione, che lo porta a evocare il ruolo di Kiev nella fondazione della nazione russa nel IX secolo e le guerre di religione del XVII secolo fra la Chiesa Ortodossa (i bravi ragazzi) e la Chiesa cattolica (i cattivi ragazzi). L’ideale monarchico non è una forma di nazionalismo, ma Putin ha dato alla sua personale lettura del passato monarchico e religioso un’interpretazione nazionalista, al punto che la lotta dell’Ortodossia contro il Cattolicesimo si presenta come una lotta nazionale dei russi (che nella sua interpretazione comprendono gli ucraini) contro i polacchi. Putin evoca l’eroica rivolta dei cosacchi che fu guidata, nel XVII secolo, dall’atamano Bohdan Chmel’nyc’kyj, anche se sceglie di tralasciare con discrezione il ruolo aggiuntivo di Chmel’nyc’kyj come leader di alcuni dei peggiori pogrom della storia.

Ma non c’è nulla di grandioso né di nobile nella lettura nazionalista del passato fatta da Putin. La sua evocazione della storia della chiesa implica la grandezza della spiritualità ortodossa ma non sembra riflettere questa grandezza, quasi come se, per lui, l’Ortodossia fosse soltanto un pensiero secondario o un ornamento. Il suo nazionalismo ricorda soltanto in modo superficiale i vari nazionalismi romantici dell’Europa del XIX secolo e degli anni che condussero alla Prima guerra mondiale. Quei nazionalismi del passato tendevano a essere varianti di un moto comune all’interno del quale ciascun singolo nazionalismo, ribellandosi contro l’universalismo dei dittatori giacobini e degli imperi multietnici, rivendicava di svolgere una missione speciale per l’intera umanità.

Ma il nazionalismo di Putin non rivendica alcuna missione speciale di questo tipo. Non è un nazionalismo grandioso, ma un piccolo nazionalismo. È il nazionalismo di un piccolo Paese – un nazionalismo che ha una vocetta strana, come quella del nazionalismo serbo che negli anni Novanta sbraitava su avvenimenti del XIV secolo. È, sia chiaro, una voce arrabbiata, ma non ha il tono profondo e tonitruante dei comunisti. È la voce del rancore nei confronti dei vincitori della Guerra fredda. È la voce di un uomo la cui dignità è stata offesa. Le aggressive invasioni di campo di una Nato trionfante lo fanno infuriare. E cova la sua rabbia.

Ma anche il suo rancore manca di grandeur. E manca, in ogni caso, della capacità di dare spiegazioni. Gli zar potevano spiegare perché la Russia aveva suscitato l’inimicizia dei rivoluzionari liberali e repubblicani: ciò era avvenuto perché la Russia difendeva la vera fede, mentre i liberali e i repubblicani erano i nemici di Dio. Allo stesso modo, anche i leader comunisti potevano spiegare perché l’Unione Sovietica si era fatta a sua volta dei nemici: ciò era avvenuto perché i nemici del comunismo sovietico erano i difensori della classe capitalista e il comunismo costituiva il disfacimento del capitalismo.

Putin, invece, parla di “russofobia”, e questo implica un odio irrazionale, qualcosa che non si può spiegare. E, nel suo rancore, non punta neppure a qualche virtuoso obiettivo supremo. Gli zar credevano che avrebbero potuto offrire la vera fede all’umanità solo sconfiggendo i sovversivi e gli atei. E i comunisti credevano che, dopo aver sconfitto i capitalisti e i fascisti, che sono lo strumento del capitalismo, la liberazione del mondo sarebbe stata a portata di mano. Ma il rancore di Putin non indica un futuro radioso. È un rancore che guarda al passato e che non ha un volto rivolto al futuro.

Stavolta, quindi, si tratta di un nazionalismo russo che non ha nulla che possa attirare il sostegno di qualcun altro. Lo so che in alcune parti del mondo ci sono persone che sostengono Putin nella guerra che sta conducendo in questo momento. Lo fanno perché albergano un loro personale rancore verso gli Stati Uniti e i Paesi ricchi. O lo fanno perché conservano la gratitudine per aver ricevuto aiuto dall’Unione Sovietica durante la Guerra fredda. E ci sono serbi che sentono un legame fraterno. Ma quasi nessuno sembra condividere le idee di Putin. Non c’è niente che si possa condividere. E non c’è nessuno in tutto il mondo che pensi che la distruzione dell’Ucraina inaugurerà una nuova epoca migliore di questa.

Questa dottrina non offre speranza. Offre isteria. Putin crede che sotto la presunta leadership nazista che si è impadronita dell’Ucraina milioni di russi che vivono all’interno dei confini dell’Ucraina siano vittima di un genocidio. Talvolta pare che con la parola “genocidio” Putin intenda dire che dei russofoni con un’identità etnica russa siano costretti a parlare ucraino, cosa che li priverebbe della loro identità – e cosa di cui parla nel suo saggio del 2021 che si intitola “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”. Altre volte sembra invece che Putin si accontenti di lasciare intatta l’allusione a dei massacri.

In entrambi i casi, è apparso particolarmente poco convincente su un aspetto importante. In nessuna parte del mondo qualcuno ha indetto una manifestazione per denunciare il genocidio di milioni di russi in Ucraina. E come mai? Perché Putin parla con il tono di un uomo che non aspira neanche a essere creduto, tranne che dalle persone che non hanno bisogno di essere convinte.

Eppure, lui si aggrappa alla sua idea. Gli si addice. Considera se stesso una persona acculturata che pensa nel modo più raffinato – come qualcuno che non potrebbe mai invadere un altro Paese se non fosse capace di evocare una grandiosa filosofia. Riguardo a questo punto, Putin sembra bramare delle rassicurazioni. E immagino che questo sia il motivo per il quale ha passato così tante ore al telefono con Emmanuel Macron, il presidente del Paese, la Francia, che è sempre stata la patria del prestigio intellettuale. Ma il cuore del disastro è proprio l’attaccamento di Putin a questa idea di una filosofia grandiosa. Infatti, come può ragionare con lucidità un uomo che è immerso in idee piccine e ridicole come questa?

Lui sa di essere circondato dai problemi e dalle sfide del mondo reale, ma la sua immaginazione ribolle. Ci sono i rancori che derivano dalla storia medievale, dalle guerre di religione e dalle gloriose imprese dei cosacchi del XVII secolo. Ci sono i paralleli tra il Cattolicesimo polacco del passato e l’attuale “russofobia” della Nato. C’è l’orribile destino dei russi dell’Ucraina che si trovano nelle mani dei neonazisti sostenuti dall’Occidente. E, in questo ribollire di rancori, la cosa migliore con cui Putin riesce a uscirsene è la politica estera dello zar Nicola I degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento.

Ora, è vero che dal punto di vista di un tradizionale realismo in politica estera tutto quello che ho appena detto dovrebbe essere scartato come irrilevante. Il realismo è un’ideologia che accantona come cose insignificanti le ideologie e si attiene rigidamente ai rapporti di potere. Questo può semplicemente significare che le farneticazioni nazionaliste di Putin sono abbastanza prive di senso, fatta eccezione per le lamentele che riguardano la Nato e le sue aggressioni, lamentele che sono giudicate non ideologiche. Ed è questo il punto su cui dovremmo concentrare tutta la nostra attenzione.

Ma davvero dovremmo farlo? Le persone che prendono seriamente le lamentele riguardo alla Nato parlano sempre del pericolo che corre la Russia come se fosse qualcosa di così ovvio da non aver bisogno di alcuna spiegazione. Lo stesso Putin sottolinea gli sconfinamenti a Est della Nato e batte il pugno sul tavolo, ma si limita a questo, senza spiegare su cosa si basino le sue obiezioni. Si suppone che noi deduciamo che l’espansione della Nato costituisca un pericolo per la Russia perché, un qualche giorno, all’improvviso, gli eserciti della Nato potrebbero attraversare il confine entrando nel territorio russo, proprio come ha fatto l’esercito di Napoleone nel 1812.

Eppure, anche se dovessimo limitare l’analisi ai soli dati di fatto, come ci suggerisce di fare il realismo, dovremmo ricordare che nei più di settant’anni della sua esistenza la Nato non ha fornito il minimo elemento perché si possa pensare che essa sia qualcosa di più che un’alleanza difensiva. Non c’è ragione alcuna per ritenere che un giorno, all’improvviso, la Nato, che è per principio antinapoleonica, si comporti in modo napoleonico. La ragione per cui la Nato si è espansa verso Est è stata invece la volontà di stabilizzare l’Europa e di interrompere le dispute sui confini – una cosa che dovrebbe essere anche nell’interesse della Russia.

Eppure, che l’espansione della Nato abbia fatto infuriare Putin e lo abbia terrorizzato è una cosa indiscutibile. Ma perché? Penso che la risposta sia ovvia. Ed è ovvio il motivo per cui nessuno la vuole dire ad alta voce. Alla fine, le rivoluzioni europee che avevano terrorizzato Nicola I, nonostante tutti i suoi sforzi, ebbero effettivamente luogo. E sorsero delle repubbliche liberali. E, nel 1949, le repubbliche liberali si sono unite fra loro, come se credessero davvero che i principi liberali e repubblicani potessero dare avvio a una nuova civiltà. E protessero questa civiltà con un’alleanza militare: la Nato. In questo modo, le repubbliche liberali produssero un’alleanza militare che conteneva in sé un’idea spirituale, e cioè la convinzione che il progetto liberale e repubblicano fosse meraviglioso. Ecco qui la rivoluzione del 1848, finalmente vittoriosa e protetta da un formidabile scudo. E Putin individua il problema.

L’espansione verso Est della Nato lo fa infuriare e lo terrorizza perché ostacola la tradizionale politica estera russa, solida e conservatrice, stabilita da Nicola I: la politica di invadere i vicini. Là dove si è espansa la Nato, la Russia non può più invadere e quindi non possono essere smantellate le conquiste delle rivoluzioni liberali e repubblicane – o, quantomeno, non possono essere smantellate dall’esercito russo.

L’opposizione all’espansione della Nato coincide quindi con un’accettazione dell’espansionismo della Russia, un espansionismo davvero strano il cui obiettivo è sempre stato impedire il diffondersi verso Est delle idee rivoluzionarie.

Ma Putin non dice questo. Non lo dice nessuno. È una cosa che non si può dire. Chiunque dovesse riconoscere che accetta la politica russa di invadere i vicini starebbe dicendo, di fatto, che decine di milioni di persone che vivono lungo il confine con la Russia, o nelle zone limitrofe, dovrebbero essere soggette alla più violenta e omicida delle oppressioni per la più banale delle ragioni, e cioè per proteggere la popolazione russa dal contatto con le idee e le convinzioni che noi stessi crediamo stiano alla base di una società sana. Per questo non lo dice nessuno. E invece si consente che circoli la supposizione secondo cui la Russia correrebbe dei pericoli a causa della Nato, in quanto si troverebbe di fronte alla prospettiva di un’invasione napoleonica. Per dirla in breve, il “realismo” che rivendica di essere una fonte di lucidità intellettuale è invece fonte di annebbiamento intellettuale.

Ma, alla fine: perché Putin ha invaso l’Ucraina? Non è per l’aggressione da parte della Nato. Non è a causa di quanto è accaduto a Kiev nel IX secolo o di quanto è accaduto nelle guerre del XVII secolo tra ortodossi e cattolici. E non è a causa del fatto che l’Ucraina, con il presidente Volodymyr Zelensky, è diventata nazista. Putin ha invaso l’Ucraina a causa della rivoluzione di Maidan del 2014. La rivoluzione di Maidan è stata proprio una rivoluzione del 1848 – una classica sollevazione europea animata dalle stesse idee liberali e repubblicane del 1848, con lo stesso idealismo studentesco e con gli stessi gesti romantici e anche con le stesse barricate nelle strade, se non fosse che questa volta erano fatte di copertoni di gomma e non di legno.

Io lo so, perché sono uno studioso delle rivoluzioni – ho osservato molti sollevamenti rivoluzionari in diversi continenti – e perché ho visto la rivoluzione di Maidan, con tre mesi di ritardo. Ho percepito nell’aria l’elettricità rivoluzionaria – e l’ha percepita anche Putin, da lontano. La rivoluzione di Maidan ha rappresentato tutto ciò contro cui Nicola I si era impegnato a combattere nel 1848-49. È stata dinamica, appassionata e capace di suscitare simpatia da parte di un gran numero di persone. Alla fine la rivoluzione di Maidan è stata superiore alle rivoluzioni del 1848. Non è sfociata in utopie folli o demagogiche, né in programmi di sterminio o nel caos. È stata una rivoluzione moderata a favore di un’Ucraina moderata – una rivoluzione che ha offerto all’Ucraina un futuro percorribile e che, in questo modo, ha offerto nuove possibilità anche ai vicini dell’Ucraina. E, diversamente dalle rivoluzioni del 1848, non è fallita. Per questo Putin era terrorizzato. Ha reagito annettendo la Crimea e fomentando le sue guerre nelle province separatiste dell’Ucraina orientale, nella speranza di poter fare qualche ammaccatura al successo rivoluzionario.

Anche lui ha ottenuto alcune vittorie e forse anche gli ucraini hanno contributo a provocare loro stessi qualche ammaccatura. Ma Putin ha visto che, ciò nonostante, lo spirito rivoluzionario continuava a diffondersi. E ha visto che in Russia il suo avversario Boris Nemcov era diventato popolare. Questa cosa lo terrorizzava. Nel 2015 Nemcov è stato opportunamente assassinato su un ponte a Mosca. Poi Putin ha visto farsi avanti Alexei Navalny, che gli faceva un’opposizione ancora più dura. E ha visto che anche Navalny stava diventando famoso, come se non ci fosse fine a questi fanatici riformatori e al loro fascino popolare. Putin ha avvelenato Navalny e lo ha imprigionato.

Ed ecco che è scoppiata un’altra rivoluzione di Maidan, questa volta in Bielorussia. E un’altra volta si sono fatti avanti dei leader rivoluzionari. Una di loro, Svjatlana Cichanoŭskaja di Minsk, si è candidata alle elezioni presidenziali del 2020 contro Aljaksandr Lukašėnka, il delinquente della vecchia scuola. E ha vinto! – anche se a Lukašėnka è riuscita una manovra in stile “Stop the Steal” (il riferimento è al tentativo fallito dei sostenitori di Donald Trump di sovvertire il risultato delle Presidenziali americane, ndr) e si è dichiarato vincitore. Putin ha segnato un altro punto a suo favore nella sua eterna controrivoluzione su scala ridotta. Ma, ciò nonostante, il successo della Cichanoŭskaja alle elezioni lo ha terrorizzato.

E Putin era preoccupato anche per l’ascesa di Zelensky che, a un primo sguardo, sarebbe potuto sembrare una nullità, un semplice comico televisivo, un politico con un programma accomodante e rassicurante. Ma Putin ha letto la trascrizione della telefonata tra Zelensky e l’allora presidente americano Donald Trump, che dimostrava che Zelensky, in realtà, non era uno sciocco. Putin ha letto che Zelensky chiedeva armi. La trascrizione di quella telefonata avrebbe potuto persino dargli la sensazione che Zelensky potesse essere un’altra figura eroica dello stesso stampo delle persone che aveva già assassinato, avvelenato, imprigionato o rovesciato – che potesse essere un tipo inflessibile e quindi pericoloso.

Putin si è convinto che la rivoluzione di Maidan fosse destinata a diffondersi a Mosca e a San Pietroburgo, se non quest’anno, l’anno prossimo. Si è quindi consultato con i fantasmi di Brežnev, Chruščëv e Stalin che gli hanno detto di rivolgersi al teorico-principe Nicola I. E Nicola I ha detto a Putin che, se non avesse invaso l’Ucraina, lo Stato russo sarebbe crollato. Era una questione di vita o di morte.

Putin avrebbe potuto reagire a questo consiglio presentando un progetto grazie al quale indirizzare la Russia in una direzione democratica e, allo stesso tempo, preservare la stabilità del Paese. Avrebbe potuto scegliere di verificare, osservando l’Ucraina (dato che crede che gli ucraini siano un sottoinsieme del popolo russo), se il popolo russo è davvero in grado di creare una repubblica liberale. O avrebbe potuto prendere l’Ucraina come modello invece che come nemico, un modello per capire come costruire quello Stato resiliente di cui la Russia ha sempre avuto bisogno.
Ma gli mancano gli strumenti di analisi che avrebbero potuto permettergli di pensare in questo modo. La sua dottrina nazionalista non guarda al futuro, se non per individuare i disastri che incombono. La sua dottrina guarda al passato.

E così Putin ha fissato il suo sguardo nel XIX secolo, e ha ceduto al suo fascino, nel modo in cui qualcuno potrebbe cedere al fascino della bottiglia – o della tomba. Si è tuffato fin nelle profondità più selvagge della reazione zarista. Il disastro che si è verificato è stato quindi, prima di tutto, un disastro intellettuale. Si è trattato di un mostruoso fallimento dell’immaginazione russa. E questo mostruoso fallimento ha determinato uno sprofondamento nella barbarie. E ha condotto l’eternamente-fragile Stato russo proprio davanti a quel pericolo che Putin era convinto di contribuire ad allontanare con le sue scelte.

(Foreign Policy, traduzione di Guido De Franceschi )

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