Armiamoci e parlateIl tono bellicoso dell’italiano armato fino alla lingua

Le notizie bomba sulla guerra al virus e all’inflazione, le battaglie femministe e lgbtq+, la lotta dei medici in prima linea. Ma c’è anche chi le spara grosse o chi vuole spezzare una lancia. È una panoplia lessicale che dice qualcosa su quanto l’esperienza del conflitto abbia permeato il nostro immaginario

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Pólemos pánton patér. Non sappiamo se Eraclito avesse ragione nel sostenere che la guerra è madre (padre, in greco, perché pólemos è maschile) di tutte le cose – nonché di tutte regina (re). Ma di sicuro è madre, o padre, insomma “genitore uno” e anche “due” di molta parte del nostro arsenale linguistico quotidiano. Non soltanto in tutte quelle parole usitatissime che derivano da pólemos, come polemica, polemista, polemizzare, sulla cui pratica qualcuno ha costruito una professione. E non soltanto quando Putin muove i carrarmati. 

Prendiamo il caso della recente – ahinoi perdurante – pandemia. Dopo una fase iniziale di scompaginamento, vissuta un po’ in tutto il globo come una rotta di Caporetto, è partita la controffensiva, con la parola d’ordine “guerra al virus”. Virologi, epidemiologi, case farmaceutiche mobilitati nella lotta, medici in prima linea negli ospedali, nelle terapie intensive malati impegnati a combattere la loro battaglia.

Ma pure al di fuori della contingenza coronavirale, in qualsiasi situazione della nostra vita i toni restano bellicosi. Guerra agli evasori, guerra agli abusivi, guerra allo spaccio, guerra all’inquinamento acustico, guerra al parcheggio selvaggio, guerra all’inflazione (che proprio in questi giorni è tornata a mordere), guerra al contrabbando, guerra alle xylella, in estate anche guerra alle zanzare (a cannonate?). Un infinito bellum omnium contra omnia. Anche se nella matrice germanica di “guerra” (werra) c’è un’idea di mischia, aggrovigliamento, scontro disordinato che contrasta con la modalità ordinata del bellum presso gli antichi Romani.

Una guerra si compone di tante battaglie, che a volte fortunatamente restano episodi isolati e non sempre danno luogo ai risultati sperati ma spesso si risolvono in un grande sperpero di energie e di vita (se non di vite). Abbiamo così le battaglie ecologiste, le battaglie femministe, le battaglie lgbtq+, le battaglie studentesche, le battaglie referendarie, la battaglia per la legalizzazione delle droghe leggere e quella per la legalizzazione dell’eutanasia (che, tra tutte, è la più coerente con l’uso non traslato della parola, visto che in una battaglia c’è in genere chi perde la vita). Detto per inciso, tanti genitori di pargoli particolarmente vivaci, tornando dal lavoro, trovano la cameretta – quando va bene; quando va male, tutta la casa – ridotta a un campo di battaglia.

Ma più in generale è tutta l’area semantica che gravita intorno alla guerra a permeare il nostro linguaggio. C’è chi le spara grosse, chi spara una cifra (in genere alta), chi esorta l’interlocutore titubante a dire la sua (“Spara!”), e naturalmente ci sono le sparate di fanfaroni, gradassi, millantatori & C. A volte si sparano siluri per affondare un’idea, una proposta politica o anche un personaggio politico (il più celebre di tutti, il silurato per antonomasia, è stato nel 1964 il leader sovietico Nikita Krusciov, segretario del Pcus). Mentre di chi viene contraddetto, intenzionalmente o meno, dal suo stesso schieramento si dice che è vittima del fuoco amico.

Poi ci sono quelli che parlano a raffica, a imitazione delle armi automatiche, o anche a mitraglia, o che ti fanno una raffica o una sventagliata di domande o di obiezioni. In questi casi può essere prudente trincerarsi nel silenzio, o nelle risposte evasive, anche per non avventurarsi in un terreno minato. Ma in un duello verbale all’arma bianca – come pure in una gara sportiva – non si sa mai come andrà a finire, specialmente se ci si confronta ad armi pari, mentre è facile prevedere l’esito se uno dei contendenti si presenta con le armi spuntate. Quando uno vuole imporsi a tutti i costi all’attenzione spara una cannonata, e se vuole fare a pezzi l’avversario spara a palle incatenate (due grosse palle unite da una catena per aumentarne la potenze distruttiva), mentre chi è in vena di esagerare lancia senza indugio una bordata (tiro simultaneo di tutti i cannoni dello stesso fianco – il bordo – di una nave). In casi estremi, può darsi addirittura che parta un micidiale missile terra-aria.

Più devastanti dei mitra, dei siluri e dei cannoni sono le bombe. Sebbene nascano da quegli esserini apparentemente insignificanti che sono gli insetti. Come spiega il grecista Giorgio Ieranò nel suo libro Le parole della nostra storia (Marsilio 2020), “bomba” ha infatti una sorprendente origine greco-antica, da bómbos, che indicava il ronzio degli insetti ma pure il rumore del tuono: messe insieme le due cose, con l’invenzione della polvere da sparo era già pronto il nome per la palla di ferro “che attraversa sibilando il cielo e poi scoppia”.

In qualsiasi ambito giornalistico ci sono le notizie bomba, dal gossip rosa all’economia allo sport, ma è soprattutto nel calcio, e segnatamente nel calciomercato, che questi ordigni metaforici piovono più fitti di quelli veri e propri scaricati su Dresda nel febbraio del 1945: celeberrime le bombe del caposcuola, il giornalista sportivo Maurizio Mosca (che poi regolarmente si rivelavano petardi). Ma nella corsa agli armamenti linguistici poteva mancare l’arma definitiva? No che non poteva, e infatti abbiamo avuto Rita Hayworth, la cui fotografia venne incollata sull’ordigno sperimentale fatto esplodere dagli americani sull’atollo di Bikini, e che dal quel momento fu per tutti l’atomica, come dopo di lei una sequela di attrici e donne dello spettacolo dalle forme generose (esplosive).

Senza dimenticare i vecchi cari strumenti di offesa-difesa, ormai obsoleti nella pratica ma sempre a portata di bocca, a cui facciamo volentieri ricorso quando ci caliamo nel Medioevo per spezzare una lancia (come spesso accadeva quando i cavalieri duellanti incrociavano le alabarde) a favore di qualcuno o qualcosa, o quando (ma qui passiamo dalla storia alla preistoria, fino al Paleolitico) confidiamo di avere molte frecce nel nostro arco (talvolta, e allora sono dolori, possiamo pure averne una nel fianco), o in mancanza di meglio lanciamo un sasso (magari nello stagno, e magari poi nascondendo la mano).

Insomma, ogni giorno scendiamo in campo armati fino alla lingua. È una panoplia lessicale che dice qualcosa su quanto l’esperienza della guerra – sofferta, temuta, esecrata, talvolta vagheggiata –  abbia segnato il nostro immaginario. Non solo, e non tanto, nei suoi risvolti dolorosi. L’aveva ben chiaro Tucidide, che nel proemio delle Storie spiegava di avere scelto come oggetto della sua esposizione la guerra del Peloponneso perché era stata “il più grande sconvolgimento” (alla lettera “il più grande movimento”: kínesis meghíste) mai prodottosi nel mondo: sono soprattutto i fattori dinamici a colpire l’attenzione, inevitabilmente stimolando la produzione linguistica. Inutile scandalizzarsi, almeno finché si resta al livello verbale. E dunque, armiamoci e parlate.