«A Mariupol c’è l’Apocalisse, le persone che si salvano dai bombardamenti muoiono di fame e sono senz’acqua». Padre Pavlo Tomaszewski ha 35 anni, è il rettore della Parrocchia di Nostra Signora di Czestochowa. Appartiene all’ordine di San Paolo e da undici anni vive nella cittadina industriale nel sud-est dell’Ucraina. Porto strategico sul mar d’Azov.
Al telefono con Linkiesta è sconvolto: «Nella zona del nostro monastero i russi hanno bombardato senza sosta per quattro giorni. È una situazione difficile da immaginare. Abbiamo visto gli aerei sganciare le bombe su di noi».
Mariupol è «una città martire», come l’ha definita Papa Francesco. Il simbolo dell’assedio feroce da parte delle forze russe. Qui è stato sventrato l’ospedale, con le donne incinte costrette a scappare tra le macerie. Non è stata risparmiata nemmeno l’università, mentre i carri armati sparano sui palazzi popolari.
Un bersaglio dopo l’altro, per un bollettino atroce: 2.200 residenti uccisi, stando ai calcoli del municipio. Le persone muoiono in strada, senza nomi né funerali. Al posto dei corridoi umanitari si scavano le fosse comuni. Come non succedeva dai tempi della Seconda guerra mondiale. «È spaventoso – si sfoga padre Pavlo – sembra che i russi vogliano uccidere tutti i civili. E questo è diabolico».
Dove non arrivano i missili, c’è la disperazione. La città è circondata dai tank nemici che non hanno consentito l’arrivo di aiuti umanitari. Li fermano con le bombe. Se non bastasse, i soldati russi hanno tolto corrente elettrica, acqua e gas. Così i 300mila abitanti di Mariupol sono rimasti in trappola come topi.
Nei rifugi l’attesa è diventata snervante: non si riesce a comunicare col resto del Paese. Il cibo scarseggia, non c’è nemmeno il latte per i bambini. Mancano anche le medicine. Tra negozi saccheggiati e fuochi accesi sul marciapiede per cucinare qualcosa, le persone devono cercare l’acqua a terra. Alcuni addirittura la raccolgono dai tetti quando si scioglie la neve. Alla lista delle disgrazie bisogna aggiungere il freddo: in questi giorni la temperatura scende fino a sette gradi sotto zero e ovviamente il riscaldamento è fuori uso.
In parrocchia si celebra la messa sotto le bombe: «Non abbiamo mai smesso di pregare». Sempre con un orecchio alla radio per capire il momento in cui provare a fuggire. «Sono tutti terrorizzati», racconta padre Tomaszewski. «È difficile lasciare la città perché ti sparano addosso. Nessuno sa cosa potrebbero fare questi nazisti quando ti incontrano».
Pochi giorni fa padre Pavlo è riuscito a scappare insieme a un gruppo di parrocchiani. Radunate le automobili, hanno imboccato la strada in direzione Zaporizhzhya, nota al mondo per la centrale nucleare attaccata dai russi. Il viaggio dei cattolici è stato un incubo. «Abbiamo incontrato combattimenti e soldati morti sull’asfalto, ma anche automobili di civili letteralmente sgusciate. È stato terribile». Dopo ore di marcia a singhiozzo, soste obbligate e nascondigli improvvisati nei villaggi, il convoglio è arrivato in un territorio controllato dalle forze ucraine.
Intanto a Mariupol la catastrofe si fa sempre più pesante. Il governo di Kiev ha organizzato diverse spedizioni con aiuti umanitari, puntualmente fermati dai russi. Gli autobus non possono caricare i profughi, troppo pericoloso. Ma ci stanno riprovando anche in queste ore. Dall’altro capo del ricevitore il sacerdote è stremato: «Ho bisogno di riposare». Una domanda continua a tormentarlo: «Cosa abbiamo fatto ai russi per meritare di essere odiati e uccisi in questo modo?». La risposta resta sospesa. Qui si prega per sopravvivere. «Chiediamo al mondo di non restare indifferente, vorremmo che l’Europa chiudesse il cielo sopra l’Ucraina per salvare la nostra gente».