In una città come Milano, non passa giorno che non apra una nuova pasticceria, panetteria, cocktail bar o ristorante. Che si tratti dell’ultima trovata commerciale o di un’insegna degna di nota, si parla sempre di nuove attività e spesso di nuovi modelli di business. Per quanto di molte recenti aperture si potrebbe tranquillamente fare a meno, l’inaspettato e continuo fiorire di così tanti nuovi indirizzi alimenta un sempre più massiccia spettacolarizzazione dell’elemento gastronomico. Anziché lavorare sulla riscoperta della buona cucina e sul senso di una filosofia eticamente corretta verso l’ambiente, quello che fa moda – o meglio click e views – sono immagini sguaiate, finte e superficiali dell’oggetto cibo. Era inevitabile che anche noi italiani – nonostante una cultura e un’eredità gastronomica così profonde– cadessimo nel tranello delle mode di poke, dei cannoli giganti dolci e salati, dei biscotti a forma di genitali maschili e femminili e degli invincibili AYCE.
Come facciamo a correggere questo progressivo abbassamento del livello di comprensione e, soprattutto, del gusto delle giovani generazioni? Come facciamo a fargli capire che non è quella la direzione che il mondo del cibo deve avere, che non è deontologicamente corretto considerare un bigné solo per la sua crema strabordante filmata durante un morso di qualcuno? Eppure dovete sapere che una delle tendenze che più ha spopolato negli ultimi anni sul web è il fenomeno del «mukbang». Nato in Corea del Sud, è arrivato a conquistare il mondo occidentale solo più di recente, questo termine deriva dall’unione delle due parole coreane “mangiare” e “trasmettere”. Avevamo già toccato l’argomento qualche mese fa, analizzando il fenomeno dal un solo punto di vista, ovvero quello dei social network. Facciamo dunque un passo indietro e capiamo di cosa si tratta. Parliamo di video nei quali le persone si filmano nell’atto di ingurgitare grandi quantità di cibo, facendo sentire alla perfezione suoni e rumori della masticazione, delle posate e quindi del cibo stesso. Non potete immaginare quanto simili produzioni lascino incollati agli schermi milioni di spettatori, in un passatempo voyeuristico al limite della patologia.
E come mai risultano così popolari? Forse la gente per sentirsi meno sola accende uno di questi video per avere compagnia. Forse, guardare altre persone che mangiano appaga il nostro desiderio. Non so se ci sono studi al riguardo, ma sarebbe interessante sapere se chi si nutre sintonizzato su video mukbang arriva a mangiare più che in circostanze normali (di quando si è soli). Leggevamo di come sia stato dimostrato, invece, che la televisione tradizionale aumenti drammaticamente la quantità di cibo ingerita. Quindi ecco che le possibilità non sono così remote e anzi, guardare qualcuno che mangia può risultare di grande suggestione per lo spettatore: ci può tornare fame prima e più rapidamente, pensiamo di avere nuovamente appetito anche se forse siamo solo condizionati da ciò che vediamo. E per di più, un cibo risulta molto più appagante se raffigurato in azione, vissuto, gustato anziché trasmesso in immagine statiche e prive di movimento. Capite bene come dietro a milioni di contenuti etichettati con l’hashtag #foodporn, ci siano in realtà ampi studi sociologici, alimentari e gastronomici. Il termine pornografia alimentare apparve nella prima volta nel 1977, in occasione di una recensione polemica fatta al testo French Cookery di Paul Bocuse, che venne per l’appunto definito «un costoso sfoggio di “gastro-pornografia”. Ad oggi i dizionari inglesi riportano questo termine come lessico intrinseco della lingua, dandone la definizione di «rappresentazione intensamente sensuale del cibo». Restando in tema di immagini accattivanti di cibo si è arrivati persino a parlare di “yolk porn”.
Con questa espressione si raccolgono sostanzialmente quelle immagini che raffigurano le proteine in movimento: il tuorlo liquido che esce da un uovo pochè – più che un cliché ormai – il formaggio che fila da un piatto di pasta, la carne alla griglia che spurga sangue e i suoi liquidi, il fumo che esce da un soffritto o un sugo in padella. I pubblicitari conoscono bene il potere di questa tipologia di immagini che indubbiamente rendono il cibo raffigurato più desiderabile, più accattivante, e quindi più facilmente acquistabile e di successo. Pensate a quando è più gradevole vedere un bicchiere di vino riempirsi, con il liquido che sgorga dalla bottiglia, rispetto a uno statico calice pieno di vino rosso. Per quanto questi termini – e i concetti che ne derivano – siano parte della comunicazione del cibo del XXI secolo, non dimentichiamoci delle conseguenze psicologiche e mentali che rischiano i giovani, ancora inesperti, ad essere esposti a determinate immagini. Se il mondo e le mode ci bombardano di stimolazioni esagerate su cibi dai gusti improbabili, porzioni mai viste e stupide gare a chi ingurgita di più, sfruttiamo le cucine di casa e le tradizioni familiari per un reset gastronomico. Il primo reset alimentare parte dalla cultura del cibo stesso trasmessa tra le mura di casa. E quando si esce, cerchiamo nei ristoranti che scegliamo per le nostre cene e i weekend in famiglia, quelle figure che operano nel rispetto delle stagioni, premiando territorio, filiera e piccole produzioni, preferendo il naturale all’artificiale, l’individuale al mainstream. Scegliamo gli artigiani laddove possibile, la consapevolezza, la concretezza. Andiamo alla scoperta di cucine di ricerca, studio e racconto di un territorio e di un ambiente, perché possano trasmettere anche ai più giovani il vero sapore delle materie prime scelte e la bellezza intrinseca della semplicità di un piatto. Magari anche senza fotografarlo.