Frangar non flectarLa lotta dell’Ucraina e l’inaccettabile confusione tra resilienza e resistenza

La capacità di riassumere la forma iniziale a seguito di un trauma è un augurio che, dal punto di vista psicologico e simbolico, tutti facciamo ai combattenti che si oppongono all’avanzata russa. Ma i danni e le devastazioni che subiscono fanno pensare che sia più corretto usare il secondo termine

Svklimkin, da Unsplash

E così, anche la strenua resistenza degli ucraini piano piano si sta trasformando in resilienza. Magari fosse così… Accanto all’invasione militare russa assistiamo anche, qui in Italia, all’invasione degli usi linguistici fuori luogo. Resilienza è una parola di gran moda, da qualche anno. La quasi omofonia con resistenza ha certamente contribuito alla confusione tra i due vocaboli, aggiungendosi all’irresistibile inclinazione a prediligere quello (un tempo) meno comune. Ma siamo sicuri che questi termini siano intercambiabili?

Vediamo. Alla voce “resilienza” il dizionario Treccani dà le seguenti definizioni: «1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.».

Ora, nell’Ucraina di questi giorni ci sembra di scorgere qualcosa che si possa ricomprendere nei punti 1 e 2? Gli edifici e le infrastrutture di Kiev, Kharkiv, Mariupol, Leopoli, Nikolaev, di cui quotidianamente le televisioni, i giornali e i social media ci mostrano le macerie, hanno forse dato prova di resistenza all’urto degli ordigni nemici? O forse vediamo che i palazzi distrutti magicamente riprendono l’aspetto originale? O vediamo i morti miracolosamente tornare in vita? Quanto al punto 3, sì, forse, per ora, e sperabilmente in un prossimo domani, grazie anche a un’imprevedibile capacità di reazione militare; ma non è degli aspetti psicologici che parlano gli inviati sul campo e i commentatori dei salotti televisivi.

Attestata nella nostra lingua già nel Settecento, la “resilienza” ha tuttavia stentato a farsi strada (tra le poche occorrenze novecentesche si ricorda la forma aggettivale usata nel 1982 in Se non ora, quando? da Primo Levi, chimico-scrittore scrupoloso nell’uso tecnico delle parole: «Schiacciata sotto il peso del corpo mascolino, Line si torceva, avversario tenace e resiliente, per eccitarlo e sfidarlo»), prima di imporsi negli anni Dieci del nuovo millennio, complici le traduzioni dall’inglese che da oltre un secolo conosce l’uso di resilient/resilience. Fino alla consacrazione nel mitico Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e (appunto) Resilienza: e infatti l’attesa (che data la situazione internazionale è destinata a slittare nel tempo) è che con la ripresa economica il “sistema Paese” recuperi l’aspetto che aveva prima della pandemia.

L’etimologia della parola rimanda al verbo latino resilio, formato dal prefisso re (che ha come primo significato “indietro”) + salio (“salto”, che nel composto diventa per apofonia silio): ossia salto indietro, rimbalzo (e per estensione mi ritiro velocemente, retrocedo, desisto, abbandono, mi restringo; ma si tratta di significati che si allontanano dal nucleo semantico della nostra “resilienza”). I romani d’oggi hanno un’espressione che rende al meglio il concetto: “me rimbarza”. In questo momento, purtroppo, di niente e di nessuno in Ucraina si può dire che “je rimbarza”.

Si può dire, questo sì, che c’è resistenza. Valorosa, ostinata, spesso efficace. La parola “resistenza” ha un’ampia gamma di sfumature a seconda dei contesti – dalle leggi dell’elettricità e dell’elettromagnetismo alla psicanalisi, dalla giurisprudenza alla sociologia, dalla biologia alla fisica, dalla meccanica all’economia – tutte incentrate intorno all’idea di una opposizione, o di una capacità di fare opposizione, in modo attivo o passivo, nei confronti di un’azione esterna o anche di una pressione o di un impulso interni al soggetto.

Nell’accezione più densa di significati etico-politici, la Resistenza che si scrive con la maiuscola ci è arrivata alla fine della Seconda guerra mondiale dal francese Résistance, che designò il movimento armato clandestino sorto nella Francia occupata per combattere le truppe della Wehrmacht: fino al ’45 i resistenti italiani parlavano semplicemente di “lotta partigiana”.

Anche “resistenza” ha un’origine latina, dal verbo resisto, composto dal solito prefisso re (che in questo caso vale “di fronte”, “contro”) e sisto, formato con il raddoppiamento della radice, la medesima del greco ístēmi, come questa connessa all’indoeuropeo stha che esprime un’idea di “stare fermo”. Chi resiste sta fermo, saldo, non indietreggia. Ma non è detto che i colpi del nemico, o della sorte avversa, su di lui rimbalzeranno.

Per quanto afferenti ad aree semantiche contigue, resistenza e resilienza non sono interamente sovrapponibili: tutto ciò che è resiliente è anche resistente, ma non tutto ciò che è resistente è anche resiliente.

Si può resistere facendosi male, perdendo pezzi, deformandosi. E chi resistendo vincerà, per quanto resiliente possa essere di carattere, difficilmente tornerà com’era prima: come sappiamo bene dalla storia, nella psicologia degli individui e dei popoli restano sempre gli strascichi (che inevitabilmente produrranno futuri contrasti). Quanto ai danni materiali, al posto degli edifici distrutti sorgeranno altri edifici, edifici differenti. E se qualche monumento di particolare rilevanza storica e artistica potrà essere ricostruito esattamente com’era, non sarà più quello di prima, sarà una copia. Frangar, non flectar potrebbe essere il motto del resistente, mi spezzerò ma non mi piegherò; invece il resiliente può pure momentaneamente flettersi, per non finire in pezzi, prima di raddrizzarsi e recuperare l’aspetto abituale.

Ma mentre sull’attuale teatro bellico l’esisto resta incerto, nel campo linguistico la sorte è segnata: l’avanzata della resilienza è più implacabile di quella dei tank putiniani e nessuna resistenza le si può opporre, perché le dinamiche compulsive della comunicazione sono resilienti ai ragionati distinguo. Se almeno dall’ambito del linguaggio la resilienza tracimasse in altre realtà più drammatiche…

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