Scolpito nella pietra per garantire l’immutabilità, la certezza, anche l’antica origine di un qualunque documento. Prima della creazione della carta, scalpello e pietre lisce erano l’unico modo di comunicare per via scritta. Così, per estensione, dire che qualcosa è scolpito nella pietra significa documento intoccabile. È successo con le tavole della legge, ossia i 10 comandamenti, incisi dal dito di Dio e donati a Mosè sul Monte Sinai secondo la Bibbia, poteva non succedere anche alla disciplina più sacralizzata dopo la religione, vale a dire la cucina?
Cibo e origini sono il campo dove la ricerca del punto fermo nel passato, del documento primordiale scalpellato con attenzione su una tavoletta di pietre nobili, si è fatta sempre più frenetica negli ultimi anni, con una smania dogmatica preoccupante e una notevole cecità da parte dei presunti esploratori, che infatti si tramutano spesso in costruttori di leggende. Con tutti i rischi che ciò comporta, perché unire i puntini sbagliati distorce il disegno e interpreta troppo liberamente le vere fonti storiche, che vanno analizzate e a volte anche debunkate pur essendo scolpite nella pietra. Però, nell’ottica languida della storia culturale della gastronomia, questi documenti sono più preziosi dei diamanti.
Raccontano di epoche lontanissime attraverso i suoi bocconi, elencano tra le righe le tecniche per consumare e conservare i cibi, distinguono le preparazioni per cerimonie da quelle quotidiane, smontano miti successivi. L’archeologia culinaria non è una disciplina, molti la vedono come un divertissement di studiosi tra una spolverata di cocci e l’altra, ma in realtà è una branca di studi estremamente importante per ricostruire la storia del passato. Tanto che la Babilonian Collection dell’università di Yale ha messo a disposizione di un team eterogeneo di studiosi di storia della gastronomia, chimica del cibo e scrittura cuneiforme le sue tavolette di pietra, proprio per decrittare cosa ci fosse scritto.
Tre di queste tavolette risalgono al 1730 a.C, una quarta a mille anni dopo, tutte provenienti dall’area della Mesopotamia (l’attuale Iraq, con parti della Siria e della Turchia di oggi). La meglio conservata di queste tavolette riporta un elenco di ingredienti che ammonta a 25 ricette di stufati e brodi, le altre due, che invece approfondiscono le istruzioni di cottura e i suggerimenti di presentazione oltre a dare altre 10 ricette, sono purtroppo spaccate e poco leggibili nel dettaglio. Ciò non ha impedito di provare a riprodurre le ricette più antiche del mondo seguendo lo stesso procedimento scolpito su pietra.
Facili? Per niente. Se i gusti dall’epoca babilonese sono decisamente cambiati, anche i procedimenti sotto molti aspetti sono diventati più raffinati e precisi. Ma in linea generale tanto è rimasto lo stesso: alla “lettura” delle tavolette si è scoperto che laddove è presente molta acqua, le ricette si riferivano a delle zuppe calde che venivano servite in occasioni specifiche. E soprattutto, gli chef dell’antica Babilonia erano molto aperti alle influenze straniere ed esterne, tanto da inglobare ispirazioni e piatti all’interno dei propri menu. Molta meno diffidenza rispetto a certi ostracismi di oggi? Probabile.
E, mai dimentichi del concetto di cibo come cura, fortemente delineato nell’era antica, i cuochi sapevano preparare anche ricette specifiche per placare stati influenzali, come il raffreddore, o istigare al relax (un brodo dai sapori di porro, coriandolo e cipolla, Lassen, si traduce effettivamente come “rilassarsi”: poi, dal Novecento, gli americani lo avrebbero semplificato in comfort food.) Per questo c’è stato bisogno di un team di professionisti tanto differenti, provenienti da diversi campi di studi: tradurre le tavolette non è stata soltanto un’operazione linguistica -non lo è mai, risponderebbero i traduttori contemporanei-, ma una comprensione profonda della cultura che ha determinato la creazione e la preparazione di certe ricette. Soprattutto, si è messo un altro tassello nella storia evolutiva della struttura delle ricette contemporanee, nonostante le tavolette babilonesi non siano così precise.
D’altronde di ingredienti senza troppo ordine sono pieni i ricettari di famiglia e i racconti affettuosi delle nonne e delle zie sulle preparazioni di ragù, parmigiane e lasagne. Quella tradizione orale è certamente preziosa, racconta una cucina di esperienza, senza troppi fronzoli e tempo da perdere con la matematica dei dosaggi. L’evoluzione del cucinare ha diversificato le precisazioni e fissato alcune regole per la compilazione dei ricettari: la lista degli ingredienti va dai più importanti a quelli secondari, le grammature sono calcolate al dettaglio (specialmente se si parla di pasticceria, dove le proporzioni corrette fanno davvero la differenza), il procedimento è millimetrico e segue delle fasi molto precise anche quando sembra tutto un gigantesco blob senza senso (in questo caso, vale la massima per la vita: trust the process, qualcuno prima di te ci è già passato e ha capito che da un’informe sbobba apparente può nascere un brasato).
Ma alla fine, come si prepara la più antica ricetta del mondo? Gli ingredienti si trovano anche oggi con facilità: carne di montone, grasso di pecora, acqua, cipolla, scalogno, latte, aglio, porro, coriandolo tritato, tutto reperibile. Il procedimento è quello di uno stufato, dalla lunga attesa prima della cottura definitiva. Per ricordare agli invitati, prima di tutto, che dagli antichi babilonesi dobbiamo recuperare la lentezza.