Pubblichiamo un estratto di Dissidenti, il nuovo libro di Gianni Vernetti (Rizzoli) che sarà presentato giovedì 17 marzo al Centro Brera, in via Formentini 10 a Milano in un incontro moderato dal direttore de Linkiesta Christian Rocca con l’autore del libro e la giornalista Anna Zafesova. L’incontro sarà visibile anche sui canali social de Linkiesta
Che cosa ci insegna la storia dei totalitarismi del Novecento e qual è la lezione che possiamo cogliere oggi dalle straordinarie vicende umane e politiche di Andrej Sacharov, Natan Sharansky, Václav Havel e Jirí Pelikán, dissidenti del secolo scorso?
La prima: i regimi, le dittature e le autocrazie non sono immutabili nel tempo e possono anche cadere.
La seconda lezione è che il desiderio di libertà e di democrazia è più forte di qualunque oppressione, non ha limiti spazio-temporali e travalica questioni etniche, culturali, storiche e geografiche
La terza è che il «cambio di regime» delle ultime satrapie nel pianeta dipende anche da noi, dal mondo libero.
Quando Natan Sharansky nel 1986 esce dal carcere e gli è finalmente permesso di lasciare l’Unione Sovietica per andare in Israele insieme alla moglie Avital, incontra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e gli ricorda che «quando eravamo in cella e sentivamo che vi battevate per noi, capimmo di non essere più soli e che la sorte dei nostri carcerieri era segnata».
È esattamente questo il motivo per il quale ho scritto questo libro. Evitare che i tanti, tantissimi nuovi dissidenti nelle carceri dei regimi dittatoriali o in fuga e in esilio dalle autocrazie di Cina, Russia, Bielorussia, Iran, Siria e Turchia vengano dimenticati o addirittura cancellati da una storia riscritta a piacimento dai regimi stessi, resi persino non più rintracciabili neanche dai motori di ricerca di una rete spesso incapace di sottrarsi alle pressioni e ai ricatti delle autocrazie.
Ma raccontare le loro storie è solo un primo passo.
«Usate la vostra libertà per promuovere la nostra» diceva la leader democratica birmana Aung San Suu Kyi, per invitare il mondo libero a globalizzare non solo le merci, ma anche i diritti.
Ed è esattamente di questo orizzonte di azione che proveremo a occuparci nelle pagine che seguono, raccontando le storie di donne e uomini che hanno pagato con il carcere e con l’esilio il loro dissenso, che si sono ribellati a regimi, dittature, soprusi e ingiustizie, provando poi a mettere a fuoco quali possano essere le politiche più efficaci per non abbandonare chi si oppone, per globalizzare i diritti, per diffondere, in ultima analisi, democrazia e Stato di diritto.
Ho incontrato negli anni molti di queste donne e uomini, persone semplici e straordinarie, che con la sola forza delle loro parole e del loro esempio hanno denunciato genocidi, violazioni sistematiche dei diritti umani, violenze di Stato, abusi. Li ho incontrati quasi tutti lontani dalle loro case, in una nuova geografia dell’esilio che si svolge fra le montagne dell’India che ospitano la diaspora tibetana; nell’isola cinese democratica di Taiwan, rifugio dei profughi di Tienanmen ieri e di Hong Kong oggi; nella piccola e combattiva Lituania, che forse più di ogni altro Paese europeo ha conosciuto il dramma dei totalitarismi del Novecento diventando oggi l’approdo sicuro della dissidenza russa e bielorussa; e infine nelle capitali del mondo libero fra le due sponde dell’oceano Atlantico.
In questo viaggio ho raccolto dunque alcune delle voci libere di Russia, Bielorussia, Cina, Hong Kong, Tibet, Kurdistan, Iran, Iraq, Turchia, Siria, voci che interpellano le nostre coscienze e che ci chiedono di agire in un mondo che rischia di diventare sempre meno libero.
Eppure, mi rendo conto, scrivendo questa introduzione, che c’era anche un’urgenza in più.
Un fattore «tempo» che avevo sottovalutato quando ho iniziato a lavorare a questo progetto. Gli anni Venti del secondo millennio saranno certamente ricordati per la pandemia di Covid-19, con la sua lunga scia di morti, i continui lockdown, il cambiamento radicale di molte abitudini, la sofferenza dei sistemi sanitari nazionali, i green pass, i no vax e i successi scientifici ottenuti in brevissimo tempo con la messa a punto di vaccini sicuri.
Ma saranno anche ricordati per l’affermarsi di quella «recessione democratica» che ha invertito il trend positivo di diffusione della democrazia iniziato negli anni Settanta del Novecento con la fine delle ultime dittature in Europa e America Latina, ed è proseguito con la caduta del muro di Berlino e il collasso del mondo sovietico.
La storia non è finita, dunque, ma ha nuovamente ripreso a correre lungo binari non facilmente prevedibili.
(…)
Soltanto nel biennio 2020-2021 in Russia il più importante leader politico dell’opposizione, Alexei Navalny, è stato prima avvelenato da agenti dell’FSB e poi incarcerato per reati mai commessi, e l’intera rete politica dell’opposizione democratica è stata smantellata e costretta a operare dall’esilio.
In Bielorussia la schiacciante vittoria alle elezioni presidenziali della candidata dell’opposizione Sviatlana Tsikhanouskaya è stata cancellata di fatto dal colpo di Stato del dittatore Aleksandr Lukašenko, che ha ribaltato a tavolino l’esito del voto instaurando un regime del terrore con un numero record di esiliati e di prigionieri politici nelle carceri del regime.
La città libera di Hong Kong non esiste più, travolta da una legge sulla sicurezza nazionale che ha piegato la società ai voleri di Pechino, tradendo il patto sino-britannico del 1997, mettendo fine al modello «un Paese e due sistemi» che aveva permesso una inedita stagione di libertà.
La Repubblica Popolare Cinese festeggia il centenario della fondazione del Partito comunista con l’ulteriore svolta autoritaria di Xi Jinping, non limitandosi soltanto all’ennesimo giro di vite nei confronti delle minoranze etniche uigure e tibetane, al soffocamento di ogni forma di dissenso interno e a rinnovare la costante minaccia verso Taiwan, ma con un obiettivo più ambizioso: riscrivere la storia della Cina.
La risoluzione presentata da Xi Jinping a inizio novembre del 2021 durante l’appuntamento quadriennale del Comitato centrale del partito ha, per la prima volta dopo molti anni, un solo punto all’ordine del giorno: una risoluzione sulla storia del partito.
Nei cento anni di esistenza del partito unico al potere a Pechino, era successo soltanto altre due volte, con Mao Tsetung e Deng Xiaoping.
La «riscrittura della storia» voluta da Xi minimizza le tragedie della Rivoluzione culturale, non fa cenno al «Grande balzo in avanti» – l’errata politica economica centralizzata che portò alla fame intere province cinesi con milioni di morti –, rimuove completamente i fatti di piazza Tienanmen e la breve stagione di libertà del 1989; rivendica il pugno di ferro su Hong Kong e Macao, dichiara inevitabile la riunificazione con Taiwan con ogni mezzo disponibile.
Manipolare il passato per controllare il presente è una costante delle dittature, come ben sanno tanto Xi Jinping quanto Vladimir Putin.
Garry Kasparov, il grande scacchista e dissidente russo, lo ha ricordato in uno dei nostri incontri, citando un vecchio proverbio sovietico: «Noi russi viviamo in un Paese con un passato imprevedibile…».
E mentre lavoravo alla stesura di questo volume, alcuni dei miei contatti e delle mie fonti sparivano un giorno dopo l’altro, in alcuni casi a poche ore dal nostro ultimo colloquio.
È successo due volte soltanto nel 2021 a Hong Kong: prima con Joshua Wong, uno dei leader più noti del movimento studentesco di Hong Kong, e poi nuovamente con Jimmy Lai, il direttore dell’«Apple Daily», l’ultimo quotidiano libero di Hong Kong, costretto a chiudere – decine di giornalisti licenziati e lui, editore e direttore, incarcerato.
Ma la «riscrittura della storia» da parte del regime di Pechino non si è limitata soltanto all’eliminazione dalla scena pubblica di intellettuali, artisti e leader politici scomodi; si è focalizzata anche sulla sistematica cancellazione della memoria della rete.
Praticamente tutti i siti web delle centinaia di associazioni della società civile, sindacati, movimenti politici, blog personali di migliaia di cittadini di Hong Kong considerati sospetti sono stati sistematicamente rimossi, e i loro nomi e nickname diventati irraggiungibili dai motori di ricerca in tutta la Cina.
Ecco qual è il «fattore tempo» cui accennavo prima: l’urgenza di dar voce ai dissidenti, di far parlare le voci libere dei regimi, prima che vengano inghiottite dal buco nero della riscrittura della storia per mano di un esercito di censori.
C’è una «storia del tempo presente» che è impellente raccontare. Il rischio concreto è di vederla totalmente cancellata in pochi anni, se non in pochi mesi, dal suo apparire sulla scena.
L’esercito dei censori di Pechino, la grande struttura del Great Firewall, non si limita alla «normalizzazione» di Hong Kong o delle minoranze etniche uigure e tibetane, ma è estremamente attivo all’interno della Cina continentale bloccando sul nascere ogni forma di dissenso.
Gli algoritmi della dittatura sono sempre più sofisticati e predittivi: incrociando i dati del più diffuso sistema al mondo di sorveglianza con telecamere e riconoscimento facciale, possono in poco tempo non solo cancellare dalla storia un dissidente, una persona, ma anche un tema, un argomento, una parola chiave ritenuta sensibile e potenzialmente minacciosa per il regime.
(…)
«Chi controlla il passato, controlla il futuro», scriveva Orwell, il quale non avrebbe tuttavia potuto immaginare il livello di pervasività, efficacia e rapidità di azione che le nuove tecnologie in possesso di un moderno regime sono oggi in grado di mettere in campo.
Tratto da “Dissidenti – Da Aleksei Navalny a Nadia Murad, da Azar Nafisi al Dalai Lama: incontri con donne e uomini che lottano contro i regimi” di Gianni Vernetti, Rizzoli, 360 pagine, 19 euro