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Binge Watching da studioseCosa hanno capito due «antropologhe da divano» dopo aver guardato 90 serie tv

Titoli come “Orange is the new black”, “Stranger Things”, “La direttrice”, “Il racconto dell’ancella” aiutano a far emergere temi incalzanti della contemporaneità, come antirazzismo e femminismo. Il libro “Spoiler! Serie tv e giustizia sociale” di Elena Garbarino e Mara Surace

(Da Youtube)

Elena Garbarino e Mara Surace sono due giovani antropologhe. Nel 2021 hanno selezionato, visto e studiato novanta serie tv e sono riemerse dal binge watching con un nuovo modo di guardare il mondo. Nel loro libro, “Spoiler! Serie tv e giustizia sociale” (Meltemi, 2022) ci sono dialoghi e monologhi tratti da serie tv come “La casa di carta”, “Stranger Things, “La Direttrice”, “Self-made”. E poi, ancora, “La vita di Madam C. J. Walker”, “Orange is the new black”, “Pose”, “Il racconto dell’ancella”, “Sex Education”, “Vida”, “Boris”, “This is us”, “Ginny & Georgia”, “Dexter”, “Dawson’s Creek”.

«Grazie agli strumenti a disposizione della rappresentazione come la possibilità di creare mondi paralleli, distopici oppure l’opportunità di indagare prospettive fino ad oggi poco raccontate – spiegano le autrici – le serie sono un interessante specchio della società e offrono la possibilità di imparare qualcosa che ci sfugge nella realtà, perché magari siamo troppo legati e legate a preconcetti e pregiudizi che offuscano la nostra vista».

«“Spoiler!” non è un libro sulle serie tv, né, tantomeno, un libro di critica televisiva o di sociologia dello streaming», sottolinea Garbarino. «Abbiamo analizzato alcuni temi dell’antropologia contemporanea, come antirazzismo, femminismo, ambientalismo, redistribuzione delle ricchezze e giustizia, giocando con le citazioni di circa novanta serie e abbiamo capito che la società di oggi è in movimento, ma non in una sola direzione: le forze spingono in diverse direzioni, e capita spesso che si scontrino. Ad esempio, le spinte di chi possiede il potere nella maggior parte delle società (uomini bianchi ricchi) vanno nella direzione del mantenimento dello status quo, mentre le rivendicazioni di chi lotta per una maggiore giustizia sociale portano una forza opposta di cambiamento».

Una serie tv da cui sono emersi molti punti di riflessione è “Orange is the new black”, «perché affronta questioni di genere e razzismo in maniera molto diretta, senza fronzoli, mostrando anche i lati più crudi e violenti. In più, lo fa in un contesto carcerario, da cui si possono comprendere i molti aspetti contraddittori della giustizia e del sistema giudiziario».

Un’altra serie ricca di significati è “Vida”, «particolarmente utile per affrontare il tema del colorismo non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia, mentre “Sex Education” è citata per parlare del dominio maschile e per mettere in luce l’aspetto androcentrico della società». E ancora: «“Black Mirror”, “Omniscient” e “Osmosis” ci hanno permesso di analizzare alcune distorsioni che la tecnologia impone alle nostre vite».

“La Direttrice” spinge verso il cambiamento, l’abbattimento dello status quo del potere maschile e bianco, ma non rinuncia a intrattenere e divertire. Questo vale anche per altri titoli: “Perché sei come sei” è una serie tv australiana che affronta temi molto seri e importanti, come il privilegio, l’alleanza con gli oppressi e le oppresse, la critica al capitalismo. «L’esposizione è chiara e l’ironia permette a chi guarda di riflettere e porsi delle domande, ma anche di ridere e divertirsi», continua. Lo stesso vale per “Derry Girls”, in cui conflitti storici come quello tra inglesi e irlandesi, cattolici e protestanti, sono affrontati attraverso lo sguardo dissacrante delle protagoniste adolescenti, più preoccupate di raggiungere la popolarità a scuola, vestirsi alla moda e innamorarsi.

Esistono ancora serie per distrarre?
«Le serie tv restano una distrazione e una via di fuga dalla quotidianità», commenta Mara Surace. «Si tratta pur sempre di intrattenimento. Anche se  le piattaforme di streaming, Netflix su tutte, cercano di prestare sempre più attenzione alle tematiche sociali e al modo in cui si affrontano, cavalcando questa consapevolezza che è propria delle nuove generazioni». A volte, spiega, «il risultato è buono, a volte si scade nel grottesco. Per parlare di giustizia sociale in modo corretto ed efficace bisognerebbe sempre accertarsi che alle persone e alle comunità raccontate sia data voce e che, magari, ci sia qualche esperto/a di rappresentazione televisiva all’interno della produzione, affinché le “minoranze” non vengano stereotipate o ridotte a macchiette, ma invece rappresentate davvero».

I prodotti culturali di massa non sono mai neutri
Come sottolinea bene nella prefazione Antonia Caruso, attivista trans/femminista, editorialista ed editrice, «i prodotti culturali, destinati a un pubblico di massa e trasversale, non hanno niente di neutro o casuale. Ogni storia e ogni messa in scena – che comprende regia, fotografia, montaggio, scelta delle musiche – veicolano un determinato messaggio».

«“Ginny & Georgia” è l’occasione per parlare di “colorismo”, un’espressione coniata nel 1983 dalla scrittrice afroamericana Alice Walker che significa “pregiudizio o trattamento preferenziale di persone dello stesso gruppo razziale basato unicamente sul colore della loro pelle. A causa del colorismo le POC (people of color), già in fondo alla scala sociale, vengono ulteriormente gerarchizzate secondo un criterio che dalla pelle più scura, quella considerata meno desiderabile, va a quella più chiara di chi possiede il light skin privilege».

Il lavoro che le due antropologhe hanno compiuto attraverso “Spoiler!” ha avuto come obiettivo quello di parlare di questi temi in modo piuttosto semplice – perché arrivassero in modo diretto a chi legge – e farlo attraverso le serie tv. «Questo per noi ha significato cercare di rendere semplice la fruizione del testo, ma senza appiattire il discorso o banalizzarlo. Per fare un esempio, quando parliamo di antirazzismo o femminismo, non ci siamo dimenticate di inserire la lotta di classe come elemento di cui invece spesso ci si dimentica, o di cui si parla e si scrive in modo poco accessibile».

Benvenuta antropologia da divano
In un certo senso hanno inventato una professione nuova, quella che loro non esitano a definire “antropologia da divano”. «“Antropologia da divano” è una battuta, un gioco di parole che riprende la definizione “antropologi da poltrona” riferita ai primi studiosi di antropologia che nel 1700 analizzavano le usanze e le culture di popoli lontani dai resoconti di esploratori e viaggiatori. Quindi proponevano le proprie teorie comodamente dalla poltrona di casa. Nel nostro caso, la ricerca si è svolta su un campo digitale, etereo, a cui molti di noi accedono stando comodamente seduti sul divano. Gli antropologi da poltrona non esistono più e pensiamo che porre delle limitazioni ai campi e alle metodologie dell’antropologia sia limitante per la disciplina stessa».


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