Di fronte a più di 30mila persone, nell’arena della Défense, periferia ovest di Parigi, Emmanuel Macron si rivolge al suo zoccolo duro, appellandosi alla mobilitazione contro il rischio dell’estremismo. «Chiedo a tutti quelli che oggi, dalla socialdemocrazia al gollismo passando per gli ecologisti, non si sono ancora uniti a noi, di farlo, perché dall’inizio di questa avventura noi abbiamo un solo partito, è il nostro Paese».
Il comizio, primo e ultimo della campagna elettorale del presidente, chiude una settimana un po’ complicata per il leader de La République en Marche!, che resta comunque saldamente in testa a tutti i sondaggi, stimato tra il 28% e il 30% al primo turno.
Macron ha per mesi rinviato l’annuncio della sua candidatura, adeguandosi da un lato alla prassi ricorrente dei Capi di Stato uscenti (François Mitterrand, Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy annunciarono la propria ricandidatura a poche settimane dal voto), dall’altro alla posizione relativamente confortevole di presidente in carica.
Mostrare all’elettorato di occuparsi del Paese al posto di confrontarsi con le fisiologiche polemiche di una campagna elettorale, sembrava una strategia vincente, come dimostrato anche dai sondaggi di opinione, estremamente solidi e costanti per tutto il 2021 e per i primi mesi del 2022.
La strategia elettorale è stata in qualche modo superata dalla realtà: l’esplosione della variante Omicron a gennaio e l’invasione russa dell’Ucraina, iniziata il 24 febbraio, hanno reso effettivamente molto complicato per Macron lasciare gli affari correnti per dedicarsi alle elezioni presidenziali.
Così, il presidente ha lasciato campo libero agli avversari, che hanno potuto beneficiare di una maggiore attenzione verso i loro programmi: a più di un mese dall’inizio dell’invasione russa, i francesi sono ormai abituati alle notizie che arrivano dall’Ucraina, e hanno cominciato a dedicare più attenzione al voto, ormai prossimo. Mentre i suoi avversari organizzavano comizi, riunioni pubbliche, passeggiate nei mercati locali e interviste, Macron ha fatto il minimo indispensabile: la sua candidatura è stata annunciata il 3 marzo, ma il primo il primo vero evento si è tenuto quasi una settimana dopo, il 7 marzo, a Poissy, in provincia di Parigi.
Poi, il presidente ha fatto il presidente, e nei successivi dieci giorni ha dedicato soltanto due pomeriggi alla campagna elettorale: il 17 marzo ha organizzato una lunga conferenza stampa per presentare il suo programma e il 18 marzo è volato a Pau, una piccola città sui Pirenei, per il suo secondo evento elettorale.
Sembrava che Macron fosse davvero entrato in campagna, e invece ha lasciato passare altri 10 giorni prima di organizzare una nuova uscita elettorale, a Digione, il 28 marzo, a cui è seguita una breve visita di circa tre ore a Fouras, in Nuova Aquitania, il 31 marzo. Infine, il 2 aprile ha tenuto il suo primo e unico grande comizio, alla Défense, a Parigi.
In totale, senza contare le interviste televisive, il presidente-candidato ha organizzato soltanto 6 eventi elettorali in un mese, un ritmo decisamente inferiore a quello dei suoi avversari, che dal 28 marzo possono anche contare sulla regola che limita l’esposizione mediatica dei dodici pretendenti all’Eliseo.
A due settimane dal primo turno, infatti, la legge prevede che ogni candidato abbia lo stesso tempo di parola (diretta o indiretta), in televisione e radio. Questa regola non si applica soltanto alle interviste, ma anche alle dichiarazioni riportate durante i servizi nei programmi radio e tv.
Così, il tempo che trovano le critiche dei diversi sfidanti, fisiologicamente concentrate sul presidente in carica, è molto più ampio rispetto a quello di cui può godere Macron. Questa limitazione sta diventando un problema a causa delle accuse che una parte della stampa e della classe politica stanno rivolgendo al governo.
Il 17 marzo scorso, il Senato francese ha pubblicato i risultati di una sua inchiesta sui rapporti tra le amministrazioni pubbliche e le società di consulenza private, rivelando che gli appalti vinti da questi gruppi sono «più che raddoppiati» tra il 2018 e il 2021. Secondo il Senato, in tre anni i ministeri hanno fatto ricorso a circa 2mila società per un totale di 893,9 milioni di euro di spesa, anche se il 55% degli appalti è stato vinto da un piccolo gruppo di 20 aziende.
Ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, in particolare, è stata l’americana McKinsey, tra le società del settore più famose al mondo, che ha ottenuto molti appalti durante la crisi sanitaria (secondo il Monde circa 40, per un valore compreso tra 28 e 50 milioni di euro) ed è accusata dai senatori di non pagare le imposte in Francia.
In più, alcuni suoi dipendenti hanno legami piuttosto stretti con il presidente Macron: Karim Tadjeddine, capo del polo settore pubblico di McKinsey Francia, è stato nel 2017 uno dei principali contributori al programma del presidente, mentre altri dipendenti di McKinsey coinvolti nella campagna del 2017 hanno ottenuto incarichi di responsabilità negli anni successivi, come Mathieu Maucort, divenuto capo di gabinetto del segretario di Stato per il digitale Mounir Mahjoubi, o Ariane Komorn, capo della divisione engagement di En Marche!, il partito di Macron, fino al 2021. Paul Midy, delegato generale di En Marche!, ha lavorato da McKinsey dal 2007 al 2014.
Il presidente si è difeso chiarendo che questo tipo di consulenze «non ha nulla di illegale», e ha invitato chi ritiene il contrario a «rivolgersi alla giustizia penale».
È con ogni probabilità vero, ma l’opposizione ha trovato un ottimo argomento per attaccare il governo e quindi il bilancio politico di Emmanuel Macron, accusato da anni di aver governato proprio utilizzando i metodi delle grandi aziende private. Durante l’ultima settimana, il presidente è tornato più volte sull’argomento, e mercoledì sera il ministero dell’Economia ha convocato una conferenza stampa per provare a chiarire la questione e spegnere l’incendio: il problema è che, a causa della regola sul tempo di parola egualitario tra tutti i candidati, gli attacchi si sono moltiplicati, rendendo l’affaire più rilevante di quanto sarebbe probabilmente stato in altri momenti.
In questa settimana, Macron ha provato a impostare la sua campagna elettorale ricreando il bipolarismo tra se stesso e l’estrema destra, rappresentata da Éric Zemmour e Marine Le Pen, ora rivali ma in fondo alleati: una volta arrivati al ballottaggio, la loro corsa «finirà in tandem».
In particolare, il presidente ha attaccato più volte Marine Le Pen, da lui designata in questo modo come sfidante più accreditata. I sondaggi, in questo momento, danno ragione a Macron, perché la candidata del Rassemblement national raccoglierebbe oltre il 20% dei voti al primo turno, e riuscirebbe a essere molto competitiva al ballottaggio, perdendo soltanto di 5 punti contro il presidente (47,5% a 52,5% secondo un sondaggio Ifop pubblicato questa settimana).
È una strategia che il Capo dello Stato porta avanti da anni, e che mette di fronte al Paese la scelta tra il campo della ragionevolezza e quello dell’estremismo, ma è in genere utilizzata al ballottaggio, quando ci si rivolge anche agli elettori che non andranno a votare per convinzione, quanto per “eliminare” il candidato meno gradito. Il fatto che Macron abbia deciso fin da subito di ricorrervi mostra che gli ultimi giorni di campagna elettorale saranno molto meno facili di quanto previsto.