Prometteva spettacolo e spettacolo è stato. I quarti di finale di Champions League sono stati scoppiettanti, talvolta imprevedibili, addirittura burrascosi. Alle semifinali ci troviamo due squadre inglesi e due spagnole, Manchester City e Liverpool e Real Madrid e Villareal. Tre potenze del calcio e una sorpresa, ma nessuna di loro ha vinto facile, soprattutto nelle gare di ritorno, decisive.
Si è visto un gran bel calcio, di quelli che fanno luccicare gli occhi, velocissimo e senza remore, profondamente segnato tatticamente dai rispettivi allenatori, perché sì, tra scelta di formazione, atteggiamento in campo e cambi in corso di partita, le scelte si sono rivelate decisive. Ciò che sembra palese (ma non lo è) riguarda tutte e quattro le squadre: la coesione dell’insieme. Fatto di forza fisica, posizioni in campo, aiuto reciproco, un tutto armonico che produce fase offensiva e difensiva perfettamente complementari. E tranne la partita tra Atletico e City – ma Simeone, si sa, è un caso a parte – i falli sono stati pochi, gli arbitri hanno consentito fluidità e poche interruzioni.
Non è soltanto per lo stile di arbitraggio in Europa, che comunque non sanziona contatti fisici che il calcio ovviamente prevede, ma anche il comportamento dei singoli giocatori. Nel campionato italiano il fallo tattico è una costante e spezza il gioco, i calciatori, ogni volta che sono toccati cadono a terra dando il via a sceneggiate degne del miglior teatro, come se fossero colpiti a morte si rotolano per ottenere punizioni, ammonizioni e rigori. Salvo poi in pochi secondi ritornare scalpitanti. Di regola, poi nelle competizioni europee i giocatori non fanno proteste minacciose, non accerchiano invasati l’arbitro come morsi da una tarantola. Ieri sera ci sono state reti annullate senza il solito capannello di discussioni intorno al direttore di gara. A differenza della serie A gli arbitri non aprono tavoli di dibattito e trattative, spiegando per filo e per segno le loro decisioni in un conciliabolo senza fine. E se sbagliano, la Var interviene e tacita tutto.
Naturalmente ci sono le eccezioni e non stupisce che riguardino l’Atletico Madrid, che fa della foga esaltata il suo stile di gioco. Sia all’andata, dove si è chiuso con i denti nel suo Fort Apache (suscitando commenti riferiti a un calcio anni ’60) e sia nel ritorno ieri sera, quando l’emotività ha preso il sopravvento in segno opposto sfociando in spasmodici attacchi all’arma bianca, il City si è trovato alle strette come non mai. Abituato a comandare sapientemente il gioco, nel secondo tempo ha subito le folate vertiginose dei Colchoneros, sorretti dalla tifoseria del Wanda Metropolitano che non ha smesso di applaudire anche dopo l’eliminazione ai quarti sul campo.
È un Dna che Simeone il condottiero ha instillato in tutto l’ambiente, una garra sudamericana trascinante. Guardiola, con i suoi sobri completini casual, ne è stato quasi travolto. Anche lui alla fine si è ricordato il suo sangue latino, e il risultato è stato lo spettacolo di due allenatori che saltellavano indemoniati. Perché il clima torrido l’ha voluto l’Atletico e gli inglesi si sono dovuti adattare: in fondo a Manchester, dopo tanta fatica, avevano segnato solo un gol.
Il piano spagnolo era la bagarre e bagarre è stata, quando Foden, colpito e affondato da un calcetto poco innocente da terra ma avvenuto fuori dal campo, rotolandosi in stile davvero poco inglese, vi rientrava per guadagnare tempo. Ne è scaturita proprio quella rissa che gli spagnoli cercavano con spintoni, tirate per i capelli, il corpo a corpo. L’arbitro guardava in disparte, senza entrare nella mischia e lasciando agli addetti Uefa e ai panchinari di ambedue le squadre il compito di dividere i contendenti, per poi tirare fuori un bel rosso destinato al difensore Felipe. L’incandescenza si è protratta anche nel tunnel che riportava negli spogliatoi. Quella di Simeone era una tattica ben collaudata e studiata: sapeva di non poter competere se la partita avesse seguito la matematica di Guardiola.
Diversissimo lo scenario tra Real Madrid e Chelsea, Liverpool e Benfica, Bayern e Villareal. Al Bernabeu, spettacolo puro, gol a iosa, quasi la partita perfetta. Un’alternanza di azioni senza tregua a chi segna di più. Schemi, gioco, gol spettacolari. E su tutti Ancelotti e i suoi due vecchietti intramontabili, Modric e Benzema. L’esperienza conta, in tutti i sensi. È ancora del centravanti francese il gol decisivo, che pur nella sconfitta permette la qualificazione di rito alle semifinali. Rapace, potente con quel barbone da islamico, Karim è implacabile.
Ma il vero talento purissimo è il trentaseienne Modric. Ancora e ancora fondamentale per regia e invenzioni incredibili, con la visione che spetta soltanto agli esseri superiori: un colpo di esterno che, millimetrico, con la palla che gira nell’aria, ha messo davanti alla porta Rodrygo. Il Real perdeva tre a zero, ha segnato due gol nel quarto d’ora finale. E Ancelotti ha avuto il coraggio di far entrare la giovinezza nel mix di età. Camavinga, ventenne centrocampista ha dimostrato con calma e classe di essere il campione del futuro. Già, proprio come da noi, dove invece i giovani di prassi non vengono lanciati in prima squadra, ma mandati a “farsi le ossa” in squadre minori per poi dimenticarsene ed evitando di dare una chance vera a chi ha bisogno di crescere tra grandi giocatori e assimilare concetti e pratica. Oppure vengono usati come merce di scambio fruttuoso.
Il Liverpool, in una gara di ritorno che sembrava non avesse nulla da dire, si è beccato tre gol dal Benfica, considerato agnello sacrificale. E forse qualcosa dice della squadra inglese, forse la migliore compagine del mondo per gioco espresso. Klopp ha votato il Liverpool all’attacco, lo fa giocare in modo mirabile, e ieri ha risfoderato il suo Firmino, che non l’ha deluso. L’unica pecca è proprio una certa facilità a incassare reti. Il senso dei Reds è che ne segnino sempre uno in più dell’avversario e il suo allenatore tedesco che parla a raffica in inglese teutonico, ne ha fatto il suo credo.
Gli toccherà nella prossima sfida il Villareal, l’outsider che ha messo in ginocchio compagini nettamente più forti. Il fattore sorpresa ha generato sorprese, il Bayern non si aspettava che Emery, altro volpone, preparasse così bene l’andata e il ritorno dei quarti. Fatto sta che una spagnola, che nella Liga è lontana dalle prime, si ritrova lì, con il vecchio Albiol, classe 1985, che ci sembra l’unico che conosciamo bene, passato al Real, al Napoli e ora al Villareal, nazionale spagnolo. Sarebbe incredibile che gli spagnoli passassero indenni dalle grinfie del Liverpool in semifinale e approdassero a contendersi la Champions. Troppo forti e determinati gli inglesi, troppo bravi, si dice. Eppure il calcio è strano, la tigna della squadra potrebbe fare miracoli, si dice. Non ci crediamo neanche un po’, il Liverpool sarà la prima squadra finalista allo Stade de France, a Parigi.
Su quale sarà l’altra, al contrario, c’è poco da prevedere. Scontro incertissimo, molto tattico e due allenatori che si conoscono dalla notte dei tempi. Il City è uscito acciaccato dalla sfida con il machismo dell’Atletico, con De Bruyin e Walker incerottati. La distorsione del terzino pare grave e sarebbe una grande mancanza tra quindici giorni. De Bruyn non si sa, ma è giocatore decisivo nell’economia del gioco di Guardiola. Ancelotti dovrà fare a meno di Casimiro, squalificato. Ma forse recupererà qualche altro giocatore infortunato. Intanto ci siamo goduti delle grandi partite, con un ritmo da apnea, inarrivabili per il treno a vapore sbuffeggiante su cui viaggiano le squadre italiane.