È stata soprattutto la partita di chi non c’era, una partita di assenze nonostante i 40mila sugli spalti e la serata super di Raspadori. La prima grande assenza è la competizione sportiva, perché non aveva senso un incontro tra le due sconfitte di un mini torneo che assegna un solo posto ai Mondiali. Nei giorni precedenti infatti si sono tirati fuori tanti giocatori: sono tornati a casa in sette dopo la sconfitta con la Macedonia del Nord.
L’assenza è anche quella di tutta la Federazione, che finora non è riuscita a prendere una posizione forte, a mandare un messaggio significativo dopo la disfatta di Palermo. Un messaggio che non deve essere per forza l’esonero del commissario tecnico. Anzi, non è (solo) dal futuro di Roberto Mancini che si deciderà il futuro della Nazionale, della Federazione, del calcio italiano.
Un minuto dopo l’eliminazione dai playoff Mondiali tutta l’Italia ha iniziato a discutere se sia il caso di rifondare il movimento calcistico del Paese, qualunque cosa significhi. Dimenticando forse che la Nazionale è solo la punta dell’iceberg di un movimento decisamente più articolato di una singola squadra e quello che accade nei 90 minuti in uno spareggio non è un indicatore globale per lo stato di salute di un movimento calcistico (ma forse non lo è nemmeno un Europeo).
La Federazione potrebbe legittimamente stabilire che questo percorso ha raggiunto la sua fine. L’Italia ripartirebbe da un nuovo commissario tecnico, con un nuovo ciclo e nuove idee. Ma non sarebbe sufficiente a cambiare tutto il resto. L’esonero o la conferma di Mancini può essere una risposta ai problemi della Nazionale negli ultimi mesi, alla mancata soluzione al rebus Immobile, al perseverare su uno spento Insigne, all’incapacità di rinunciare a un Barella sbiadito o di sopperire alle assenze di Chiesa e Spinazzola. Ma non può essere l’unica risposta della Federazione ai più radicati problemi del calcio italiano, che invece sarebbe il caso di affrontare dopo la seconda delusione mondiale consecutiva.
E non ci sono soluzioni facili. Già al gol di Trajkovski, giovedì scorso, qualcuno ha iniziato a tirare in ballo la solita vecchia questione del numero di giocatori non italiani in Serie A, come se fossero la prima causa del problema.
Gli stranieri in Serie A non sono molti di più di quelli che giocano in Liga, in Ligue 1 o in Bundesliga. E sono sempre meno di quelli che lavorano in Inghilterra: nessuno di loro ha impedito alla Nazionale inglese di giocare la finale degli Europei, di qualificarsi a Mondiali in Qatar, di vincere i Mondiali Under 20 e Under 17 cinque anni fa. Comunque la percentuale di stranieri in Serie A è del 62%, in Inghilterra del 65,5%.
L’altra polemica facile è quella della Serie A come campionato in cui gli Under-21 non hanno spazio. Almeno questa è dettata dai numeri: i dati dell’osservatorio calcistico CIES – che guarda alle partite di Serie A dal primo gennaio 2021 a oggi – dicono che la quota di minuti di gioco concessa a calciatori sotto i 21 anni è stata pari al 3,9%. È il terzo numero più basso dei campionati europei.
Se ne è lamentato a ragione anche il ct della Nazionale Under-21, Paolo Nicolato, costretto a pescare attaccanti in Serie C perché nelle categorie superiori non vedono il campo (contro il Montenegro, una settimana fa, ha schierato un tridente di giocatori che non hanno ancora segnato nel 2022).
È certamente uno dei problemi della Serie A. Ma riguarda anche altri grandi campionati europei: il minutaggio concesso agli Under-21 in Liga (4,2%) e in Premier League (4,4%) è appena superiore. Ma purtroppo o per fortuna le indicazioni puramente quantitative non bastano, per cui è inutile sperare di ritrovarsi con un campionato pieno di giovani italiani se il livello qualitativo non è all’altezza degli altri campionati.
La realtà del movimento calcistico italiano è un po’ più complessa di così. O meglio, tiene tutte queste cose insieme, dalla Nazionale che non riesce a staccarsi dallo zoccolo duro dei campioni d’Europa ai pochi giovani in campo in Serie A. E non solo. L’Italia del calcio non riesce, ad esempio, a esportare i suoi giocatori perché questi non hanno appeal tra le grandi squadre europee (della Nazionale di Mancini solo Verratti, Donnarumma e Jorginho sono impegnati con squadre che ambiscono alla vittoria della Champions League).
L’Italia fa fatica a sviluppare nuovi talenti di altissimo livello, giocatori in grado di fare la differenza su qualsiasi palcoscenico calcistico con continuità. E non è cambiato granché dopo il pensionamento della generazione campione del mondo nel 2006, non è cambiato granché nemmeno dopo le delusioni mondiali del 2010 e del 2014. E se l’Europeo dello scorso anno ci aveva fatto sperare di aver superato la disfatta contro la Svezia, la Macedonia del Nord ci ha fatto ritornare con i piedi per terra.
I problemi del calcio italiano non hanno una risposta semplice o diretta. Non c’è una ricetta in grado di portare un risultato sicuro, niente risolve tutti i problemi, dalle squadre di club ai singoli giocatori, fino alla Nazionale.
Ma almeno stavolta si potrebbe pensare di mettere in discussione le dinamiche di formazione e sviluppo del talento in Italia. Magari guardando altrove per imitare – o almeno prendere spunto – chi ha saputo ricostruire e ricostruirsi da zero.
La Germania, ad esempio, decise di cambiare tutto dopo gli Europei del 2004 – con un progetto che era stato presentato già qualche anno prima. La Federazione decise di interrompere la stagnazione dell’epoca intervenendo proprio sulla qualità dei giocatori tedeschi, non gonfiando artificialmente la quantità di tedeschi presenti in Bundesliga.
E allora ecco la riforma: le squadre professionistiche dovettero adeguare le loro Academy e le proprie strutture; nacquero 366 Stützpunkte, punti regionali di raccolta per ragazzi dai 10 anni in su – lo scopo era che tutti ne avessero almeno uno nel raggio di 25 km da casa.
Un processo raccontato negli ultimi giorni da Angelo Carotenuto nella sua newsletter Lo Slalom: «Presero spunto da come Francia e Olanda avevano organizzato la formazione e il reclutamento. Seicentomila ragazzi iniziarono a passare ogni anno sono sotto gli occhi dei 1300 osservatori al servizio del Programma di promozione del talento. Nella fascia d’età fra i 10 e i 13 anni, nel reclutamento il fisico non venne considerato. Fu incoraggiata invece la libertà. I settori giovanili insegnarono a essere spensierati in campo. I vivai si riempirono di Footbonaut, la macchina che spara palloni dagli angoli. Bisogna indirizzarli dopo lo stop in uno dei 64 quadranti che di volta in volta si illuminano. Si toccano più palloni con il Footbonaut in 10 minuti che in una settimana nei vivai italiani. Fino all’età di 13 anni, i ragazzini tedeschi provano tutti i ruoli, compreso il portiere. I lanci sono vietati e si ritiene che non abbia molto senso esercitarsi così piccoli a colpire la palla di testa. Di ruoli e posizioni non si parla prima dei 14 anni».
Oggi sappiamo che quella riforma fu l’atto fondativo della Goldene Generation, quella dei Reus e dei Draxler, quella dei Toni Kroos e dei Mats Huummels, e di Mario Götze capace di decidere una finale di un Mondiale.
Anche l’Inghilterra solitamente conservatrice quando si tratta di rinnovare il suo amato football si trova all’apice di un percorso iniziato non molto tempo fa, e che adesso sta portando risultati macroscopici. Risultati che si riflettono anche nelle prestazioni della Nazionale dei Tre Leoni, ma non solo.
Nel 2014 la Football Association ha lanciato il programma “England Dna”, che è rivolto ai ragazzi dall’Under-15 in su e definisce i nuovi principi cardine per la formazione dei giovani: pone al centro il dominio del possesso, il recupero del pallone nei momenti migliori e la flessibilità tattica.
L’idea alla base è quella di creare prima di tutto un’identità di gioco replicabile a tutti i livelli, partendo dai più giovani. Da quel momento “England DNA” è diventato il punto di partenza per l’approccio della Federazione allo sviluppo dei giocatori d’élite.
«La FA riconosce che i club rimarranno sempre la principale influenza sui giovani giocatori, che formeranno il loro gioco in base alle esigenze del loro tecnico. Ma allo stesso tempo la federazione può guidare lo sviluppo e dare la direzione desiderata se condivide visioni simili con le società. I club vogliono buoni giovani giocatori nelle loro Academy e noi vogliamo buoni giocatori nelle Nazionali inglesi. Abbiamo gli stessi obiettivi», aveva spiegato Dan Ashworth, FA director of elite development dal 2012 al 2018. Ashworth ha disegnato quel programma studiando il successo del modello tedesco, osservando la capacità di un territorio piccolo come il Belgio di sfornare una generazione d’oro, riprendendo dalla scuola francese la rete dei centri federali che si dirada a partire dall’hub di Clairefontaine.
E la Federazione del Portogallo ha fatto lo stesso ancora in tempi recenti, riformando tutto a partire dal 2012. L’allora neopresidente Fernando Gomes ha voluto costruire un’infrastruttura non solo fisica ma anche culturale, in grado di dare una direzione univoca a tutte componenti della macchina federale, dai giocatori più giovani agli allenatori, fino ai dirigenti.
Il Ceo della federazione, Tiago Craveiro, riassume così il lavoro dei vertici federali: «Abbiamo sempre avuto ottimi calciatori, ma avevamo capito che mancavano organizzazione e pianificazione. Siamo 10 milioni di persone, non possiamo permetterci di perdere giocatori: dobbiamo essere efficienti e sfruttare al massimo quello che abbiamo, perché non possiamo disperdere il talento».
Un approccio che ha avuto diramazioni in ogni settore. La Federazione ha voluto creare anche un’università tutta sua, un elemento più unico che raro per un’istituzione sportiva, così da costruire in maniera diretta cultura e conoscenza – calcistica e non – da diffondere a tutti.
Inaugurata a marzo 2017, la Portugal Football School oggi forma più di 2.500 studenti, e fornisce anche corsi di base per i dirigenti dei piccoli club in tutto il Paese. In questo modo, aiuta a migliorare le conoscenze nell’amministrazione del calcio: «Ci siamo chiesti», aggiunge Craveiro, «cosa potessimo fare perché le società meno sviluppate, anche a livello locale, funzionassero meglio. La risposta era nella formazione delle persone che lavorano negli uffici, che gestiscono quelle società».
Il calcio italiano non può accontentarsi di rendere il ct sconfitto il nemico del Paese per poi dimenticarsi di tutto come ogni volta. Il lavoro della Federazione dovrebbe partire da una riforma complessiva dei suoi organismi e delle sue strutture, dei metodi di lavoro e delle idee che vuole trasmettere a chi gioca a calcio. La prima eliminazione prematura da un Mondiale non ha portato grandi cambiamenti in questo senso. Forse questa sarà la volta buona.