Si racconta che un giorno Alberto Sordi, invitato a colazione da Gianni Agnelli, si presentò alle 8 di mattina al cancello di villa Frescot, sulla collina torinese, lasciando basito chi andò ad aprire: in casa dell’Avvocato per colazione si intendeva infatti il pasto consumato tra mezzodì e le due. L’episodio è probabilmente inventato, ma anche rivelatore di una curiosa confusione lessicale. Nel 1976 lo stesso Albertone, ospite in tv di Mike Bongiorno, aveva rievocato divertito una serata torinese chez il signor Fiat, che l’aveva incontrato dopo la proiezione di un film. «Vuol venire anche lei a pranzo?». «Volentieri, Avvocato, io stavo per andare a cena…». «Allora, se stava andando a cena, venga a cena a casa mia» (per la cronaca, o più verosimilmente l’aneddotica, la serata, piluccate le monacali portate d’ordinanza in quella magione, in seguito alle imbarazzate rimostranze dell’attore si concluse con una mega spaghettata che coinvolse tutti gli ospiti).
L’uso di slittare in avanti di una casella nella nomenclatura dei pasti quotidiani non è molto comune, ma è piuttosto diffuso nell’alta società e in quegli ambienti lavorativi improntati al dinamismo manageriale che ritengono poco fine, oltreché improduttivo, indugiare a tavola nel pieno della giornata quando “c’è da laurà”. Sono in genere brave persone che non hanno problemi a mettere insieme il pranzo con la cena, non foss’altro perché, pranzando la sera, finiscono quasi sempre col non poter cenare. A meno che non consumino l’ultimo pasto della giornata dopo il teatro, o dopo la penultima proiezione al cinema, nel qual caso però avrebbero saltato il “pranzo” delle venti.
Insomma per questi begli spiriti non c’è scampo: nel girotondo semantico delle loro abitudini alimentari giornaliere, come nel gioco delle sedie, tra pranzo e cena c’è sempre un pasto che resta fuori. Per lo più la cena, che quando viene il suo turno spesso si dilata trasformandosi in cenone. Unica a salvarsi è la colazione, che non solo non lascia ma anzi raddoppia, a poche ore di distanza, con la conseguenza di dover distinguere tra prima e seconda, in analogia con quanto avviene da secoli nei paesi anglosassoni e del Nord Europa. Ma questa precisazione è normalmente omessa da chi fa colazione quando gli altri pranzano, e appena sveglio si concede magari soltanto un caffè o, se ne ha voglia e tempo, un breakfast più o meno full. Nel caso sia full, non c’è bisogno di attardarsi a metà giornata con il pasto principale e più ricco, che viene perciò spostato alla sera conservando il nome di pranzo e lasciando alla colazione (spesso “di lavoro”) campo libero a cavallo di mezzogiorno.
È proprio in funzione dei moderni usi e orari lavorativi che Aldo Gabrielli (Si dice o non si dice? Guida all’italiano parlato e scritto, nuova ed. a cura di Paolo Pivetti, Hoepli 2013, pp. 63-64) spiega gli smottamenti del lessico manducatorio. Domandandosi però, infine: “pur cambiando l’intensità dei pasti e la loro ricchezza calorica, non erano più chiari i nomi tradizionali? Che ragione c’è di non mantenerli?”. In effetti nessuna, sebbene la tradizione, quando Gabrielli scriveva, fosse già stata infranta da tempo nel linguaggio ufficiale ed elevato, nonché in quello di ambito alberghiero.
Nulla da eccepire sull’uso estensivo di colazione, che nella sua radice non ha alcun riferimento a una collocazione oraria definita. Secondo l’ipotesi più accreditata la parola deriva dal basso latino collatio, connesso a collatus, participio passato del verbo confero: indicava il pasto in cui ogni commensale conferiva la sua parte, o anche, nelle prime comunità cristiane, il momento in cui i monaci si raccoglievano insieme per pregare e nutrirsi. Ma questo pasto, assai leggero, inizialmente era consumato la sera prima di coricarsi, e soltanto con l’istituzione della Regola benedettina, nel VI secolo, fu spostato dopo le preghiere del mattino. Se dunque fin dalle origini la colazione poteva essere liberamente dislocata nel corso della giornata, chi vuole può oggi legittimamente usare questa parola per indicare il primo e anche il secondo, e un domani, magari, pure il terzo pasto della giornata. A costo di vedersi piombare in casa Alberto Sordi quando meno se lo aspetta.
È però sul pranzo che casca… il commensale. Di etimo incerto, il prandium degli antichi romani – che alcuni spiegano come il composto del latino pra(e) (avanti, prima) e dium (da dies, giorno) con l’aggiunta della n eufonica), altri come la combinazione del greco pro (che ha lo stesso valore del latino prae) e éndios (a mezzogiorno) – era comunque indiscutibilmente lo spuntino di metà giornata, consumato nell’hora sexta (quella che andava dalle nostre 11 alle 12). In quanto primo vero pasto quotidiano (dopo il modesto ientaculum servito appeni svegli), era detto anche disieiunium, con il prefisso dis, che nei composti fa acquistare il valore contrario alla voce semplice, e ieiunium, digiuno: ossia “non digiuno”, “interruzione del digiuno”. Di qui il sostantivo (e verbo) italiano desinare, lo spagnolo desayuno (che indica però la prima colazione), il francese déjeuner; la forma francese più antica era tuttavia disner, dalla quale si sono originati il francese moderno dîner e l’inglese dinner che – attenzione – col tempo si sono progressivamente spostati in avanti fino a coincidere, già nel Duecento, con il pasto serale. La stessa sorte che, nell’uso “non tradizionale”, è toccata al nostro pranzo, arricchito di valore alimentare ai danni della cena confinata ai margini della giornata.
Ma era appunto la cena (nel latino medievale coena), riconducibile a una radice indoeuropea che contiene l’idea di tagliare, il pasto principale dell’antica Roma, che cominciava a metà pomeriggio, da tre a cinque ore dopo il prandium, e in alcuni casi (celeberrima e pacchiana la cena Trimalchionis raccontata da Petronio) poteva protrarsi fino a notte fonda, tra lieti conversari, brindisi, giochi, musiche, canti e prestazioni accessorie delle etere. E proprio adesso che le urgenze della nostra organizzazione quotidiana hanno posticipato il pasto principale alla sera – perniciosamente, dal punto di vista nutrizionistico – vogliamo rinunciare al suo nome storicamente più appropriato?
Se così deve essere, dimentichiamoci anche dell’Ultima cena di Gesù: diventerà l’Ultimo pranzo. E al posto del Cenacolo di Leonardo ci terremo il Prandicolo. A meno che in quel giorno fatale Gesù non si fosse messo a tavola con i suoi discepoli dopo averli portati al cinema al penultimo spettacolo.