Karl Marx non è il filosofo preferito di tutti abitanti di Vienna, ma pochi avranno da ridire su Karl-Marx-Hof, uno dei migliori esempi di edilizia pubblica al mondo e il luogo che circa 5mila viennesi chiamano casa.
Più del 60% dei cittadini della capitale austriaca vive all’interno di “case popolari” di proprietà del municipio o di cooperative sovvenzionate dallo Stato, che hanno ben poco in comune con le case di ringhiera traballanti e gli ecomostri a cui siamo abituati in Italia: nei condomini popolari viennesi c’è spazio per piscine, giardini, asili, biblioteche e uffici.
«La nostra politica si basa sull’idea fondamentale che avere una casa sia un diritto umano», spiega Kurt Puchinger, direttore della pianificazione urbanistica della città di Vienna. Un’affermazione tanto semplice quanto surreale se si guarda al resto del mercato immobiliare delle grandi città europee.
Secondo il 2021 State of Housing in Europe report, in Italia la percentuale di inquilini in difficoltà con l’affitto nel settore privato è salita dal 10% al 24% dall’inizio della pandemia.
Solo nell’Île-de-France, la regione francese in cui si trova Parigi, la realizzazione di nuovi edifici pubblici è scesa del 40% nel 2020, mentre il numero di richieste è arrivato a quota 750mila. A Dublino, più della metà delle vendite di proprietà registrate nel 2021 da una delle principali società immobiliari della città viene da proprietari di case di piccole o medie dimensioni.
Non è un fenomeno esploso con la pandemia: l’Europa stava già vivendo una crisi abitativa molto profonda da tempo. Sempre secondo il report, negli ultimi dieci anni il prezzo delle case è aumentato del 30% e quello degli affitti di circa il 15%.
Nel frattempo, gli investimenti delle grandi città in progetti di edilizia pubblica sono diventati sempre più rari, lasciando via libera alla gentrificazione di ex quartieri popolari e all’aumento di persone costrette a vivere in condizioni sempre più precarie.
È vero anche nei Paesi dell’ex blocco sovietico, dove l’edilizia popolare non è un modello poi così lontano. A Praga, in Repubblica Ceca, il numero di abitazioni di proprietà del comune è sceso da 200mila a 30mila negli ultimi trent’anni. Sofia, capitale della Bulgaria, ha uno dei tassi di sovraffollamento più alti d’Europa, ma molte delle sue case restano vuote (nel 2011 erano il 23% del totale) perché in mano a investitori in attesa di trarre il massimo profitto dai loro acquisti ma senza un reale interesse a occupare quegli spazi. In Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia (il cosiddetto gruppo di Visegrád) gli appartamenti oggi costano fino a dodici volte lo stipendio medio annuale dei cittadini.
L’esempio più emblematico della crisi abitativa che si accanisce sulle grandi città europee rimane però Lisbona. «La piaga [portoghese] risale alla crisi del debito europea del 2008», spiega il Guardian, ricostruendo la storia delle golden visa, i passaporti d’oro, una scorciatoia che il governo portoghese mise in piedi per attirare investitori stranieri. Il programma prevedeva infatti che chiunque investisse almeno 500mila euro nel mercato immobiliare avrebbe ottenuto la residenza in Portogallo, con tutti i benefici correlati.
Dal 2012, circa 10mila cittadini extraeuropei (soprattutto cinesi, brasiliani, turchi, sudafricani e russi) hanno ricevuto l’ambito golden visa, investendo più di 5 miliardi di euro. Nello stesso periodo, le misure di austerità colpivano invece il mercato degli affitti, aumentando il numero degli sfratti: nel 2017, ogni giorno circa cinque famiglie portoghesi erano costrette ad abbandonare le loro case.
«Attualmente i comuni delle grandi città non sanno di chi sono gli edifici in cui vivono i loro cittadini. I grandi investitori continuano ad accumulare proprietà indisturbati come se stessero facendo una lunga partita a Monopoly», spiega a Linkiesta Kim van Sparrentak, eurodeputata olandese dei Verdi europei e autrice di un dettagliato report sulla crisi abitativa europea presentato al Parlamento europeo a inizio 2021.
Nel suo documento, van Sparrentak sottolinea l’inadeguatezza della risposta europea alla crisi abitativa delle sue grandi città e propone di aumentare il numero di edifici pubblici con alloggi adeguati, sicuri e a prezzi accessibili, migliorare l’abitabilità e l’efficienza energetica delle abitazioni già presenti sul territorio e di quelle future, porre fine al fenomeno dei senzatetto e progettare misure per arginare l’atteggiamento monopolistico dei grandi investitori sul mercato immobiliare.
Il testo è stato adottato dal Parlamento europeo, portando a quello che van Sparrentak definisce «un enorme cambiamento nel modo in cui la crisi abitativa europea viene discussa e percepita». Non a caso, da luglio dello scorso anno combattere il fenomeno dei senza tetto è diventato uno degli obiettivi europei da raggiungere entro il 2030. Da allora «molti sforzi sono stati dirottati sul raccogliere il maggior numero possibile di dati e informazioni sui senza tetto europei», spiega van Sparrentak.
Per van Sparrentak e altri esperti, il peso della crisi abitativa non può infatti ricadere interamente sulle spalle delle singole città. «Il sistema viennese è nato dopo la fine della Prima guerra mondiale: da allora la città investe nell’edilizia sociale costruendo case e mantenendo in piedi un complesso sistema politico di investimenti pubblici», spiega Gyorgy Sumeghy, responsabile delle attività di advocacy di Habitat for Humanity International. E aggiunge: «Esistono anche altri buoni esempi di edilizia popolare a Berlino o a Praga, ma è impossibile pensare di competere con cent’anni di investimenti».
I governi nazionali e l’Unione europea hanno quindi bisogno di fronteggiare la situazione, anche se non tutti gli esperti sono d’accordo su quanta responsabilità ricada su ciascuna delle parti. Da un lato, infatti, «se la crisi abitativa è un problema che colpisce tutti gli Stati europei, abbiamo bisogno di una risposta comune», come dice il ministro delle infrastrutture portoghese Pedro Nuno Santos.
Dall’altro, sottolinea Sumeghy, «le istituzioni europee hanno dato tutto il supporto possibile in materia di raccomandazioni e fondi (come l’European Regional Development Fund, contenuto nel Green Deal europeo).
Dal punto di vista legale, tuttavia, la situazione abitativa è di competenza dei singoli Stati. La scelta di usare questi fondi per risolvere la crisi abitativa europea rimane quindi nelle mani dei governi degli Stati membri». Una decisione che molte persone in Europa non vedono l’ora che venga presa.