Chiamata alle armiChi sono i sessanta italiani che combattono in Ucraina

Volontari mossi dalle motivazioni più disparate: la ricerca di status sociale, la definizione della propria identità, a volte la vendetta. Per loro, che pure non si considerano mercenari, potrebbero essere previste pene al rientro in Italia

In questa guerra si è parlato molto del reclutamento di cittadini stranieri nelle forze armate russe e ucraine, un fenomeno ormai ben radicato nella guerra contemporanea. La globalizzazione dell’informazione, la commercializzazione dei conflitti e l’estrema mobilità hanno abbassato di molto il costo che i singoli individui provenienti da paesi terzi devono pagare per partecipare alle guerre altrui.

La folla di cittadini italiani andata ad ingrossare le fila dell’esercito ucraino da un lato e delle forze separatiste dall’altro è un microcosmo che ben rappresenta questa tendenza. Secondo Francesco Marone dell’ISPI, all’indomani dell’invasione russa c’erano fra i cinquanta e i sessanta italiani impegnati nei combattimenti, ed è difficile quantificare il numero di nuovi volontari affluiti da febbraio.

Le storie personali di queste reclute sono le più svariate, ma è prima di tutto importante distinguere i combattenti italiani da gruppi armati apparentemente reclutati in Siria e inquadrati dal contractor Wagner nell’apparato militare russo. La distinzione è necessaria sia da un punto di vista militare che sociologico. Nell’ancora ipotetico caso siriano si tratta infatti di uno schieramento di brigate più o meno coese, unite se non dalla stessa storia operativa allora almeno da una simile esperienza nei combattimenti a fianco dei russi in Siria. Questi combattenti stranieri (il termine foreign fighter è per lo più osteggiato dagli analisti perché evoca l’esperienza specifica del meccanismo di reclutamento dell’ISIS, un unicum della storia recente) sono più assimilabili a mercenari, mobilitati per sfuggire alla povertà e in parte per fedeltà ai leader delle fazioni siriane che nelle ultime settimane hanno diffuso la chiamata alle armi.

I volontari italiani hanno poco da spartire con i loro omologhi soprattutto perché il loro reclutamento sembra essere marcatamente meno deliberato, rispondendo più alle loro esigenze individuali e a quelle delle repubbliche separatiste. È altamente sconsigliabile provare a fare psicologia spiccia dei singoli italiani arruolatisi in Ucraina; nonostante ciò, è possibile dare un’occhiata alla letteratura scientifica esistente sul tema dei combattenti stranieri (non mercenari), rimanendo però consapevoli anche dell’unicità dei diversi casi.

Secondi gli studiosi Randy Borum e Robert Fein, i volontari stranieri sono nella maggior parte dei casi mossi da un senso di vendetta nei confronti del nemico che andranno a combattere, o ciò che essi credono egli rappresenti, che esso sia il capitalismo consumistico occidentale, il materialismo o una società pluralistica. La ricerca di status sociale e il desiderio di definire una propria identità sono altre motivazioni estremamente importanti.

Tramite questa lente, e con tutte le precauzioni del caso, è possibile comprendere meglio anche i volontari italiani in Ucraina. Ciò che colpisce è infatti la diversità di motivazioni che hanno portato molti di loro a combattere e come questi moventi ideologici vengano utilizzati politicamente dalle fazioni in campo.

È istruttivo l’esempio di Edy Ongaro, comunista caduto in Donbass dove combatteva dal 2015. I media riportano che Ongaro combatteva nella brigata Prizrak (Fantasma”), una delle milizie più efficaci della “Repubblica popolare” di Lugansk (DNL). La brigata, almeno nelle fasi iniziali del conflitto, non è stata integrata nella struttura di comando dell’esercito della “Repubblica Popolare”, e come le altre milizie del Donbass andrebbe più che altro concepita come un gruppo autonomo unito solo nominalmente alle altre forze dell’esercito separatista.

L’Unità 404, formazione comunista di cui faceva parte Ongaro, era particolarmente vicina al comandante dell’unità Alexei Markov, uno dei pochissimi leader del Donbass a essere morto in un incidente e non essere stato assassinato in seguito a un conflitto di potere fra i capibastone della DNL e gli handler che per conto di Mosca cercano di mantenere una sembianza di controllo sulle milizie. Anche se è difficile navigare gli affari interni delle opache repubbliche separatiste (spesso più simili a cosche che organizzazioni politiche), è probabile che i soldati stranieri siano più dipendenti dai loro comandanti e servano quindi da correttivo ai piccoli criminali russofoni e aspiranti mafiosi stabilitasi nel Donbass dopo lo scoppio della guerra.

Ongaro era fuggito in Ucraina a seguito di seri problemi giudiziari in Italia, come del resto il militante neofascista Andrea Palmieri, anche lui combattente per la DNL. In generale, gli estremisti di destra hanno attirato il grosso dell’attenzione occidentale anche a causa dello stretto rapporto che molti di loro intrattengono con organizzazioni di supremazia bianca in Europa e negli Stati Uniti (uno fra tutti Matthew Heimbach, neonazista organizzatore della famigerata protesta “Unite the Right” di Charlotteville del 2017). L’impatto di queste reti transnazionali sembra in ogni caso più forte che per i sistemi di reclutamento a sinistra.

Secondo un report del Soufan Center, più di una trentina di white supremacist italiani avrebbero ad esempio partecipato ai combattimenti in Ucraina nello schieramento governativo, almeno fino al 2019. Il battaglione Azov è ovviamente l’esempio più noto, e già nel 2014 una fonte del Corriere della Sera indicava addirittura la presenza di soldati italiani in servizio attivo nella formazione di estrema destra.

Rispetto alla prima fase della guerra, tuttavia, la situazione per chi combatte dal lato ucraino è però molto diversa. Negli ultimi anni Kiev ha fatto molto per incorporare le milizie autonome presenti sul suo territorio nella Guardia Nazionale, il corpo di gendarmeria paramilitare del ministero degli Interni ucraino. Ciò è stato fatto per rafforzare il controllo delle autorità ucraine su queste unità autonome, la stessa motivazione che ha portato il governo di Zelensky a organizzare fin da subito una Legione Internazionale integrata all’interno delle Forze di Difesa Territoriale, la riserva ausiliare dell’esercito ucraino.

È qui che si è arruolata anche Giulia Schiff, pilota dell’Aeronautica Militare italiana espulsa nel 2018. L’ex sottufficiale, nota per le denunce di nonnismo e mobbing da lei mosse contro i commilitoni, non sembrerebbe essersi arruolata per motivi marcatamente ideologici.

Come gli altri italiani potrebbe comunque essere perseguibile dalla legge al suo rientro in Italia, dove l’articolo 288 del Codice penale stabilisce che «chiunque nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni. La pena è aumentata se fra gli arruolati sono militari in servizio, o persone tuttora soggette agli obblighi del servizio militare». Schiff ha protestato indicando di non «essere un mercenario» – dimostrando ancora una volta quanto queste distinzioni facciano fatica a stare al passo con il cambiamento nella sociologia della guerra.

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