Mind the gapL’enorme distanza tra i servizi pubblici digitali e gli standard del settore privato

Nel suo ultimo libro, “Il divario” (Egea), Gianluca Sgueo racconta le ragioni delle differenze, tecniche e tecnologiche (e di funzione) tra le due realtà, che si riflettono anche nella percezione generale, segnata dalle aspettative abbaglianti del mondo commerciale poi deluse dalle macchinosità dello Stato

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Raccontare la complessità del digitale significa sottolineare la distanza di efficienza, velocità, semplicità e personalizzazione tra un servizio digitale pubblico e un servizio, o un bene, digitale privato, quindi commerciale. C’è un divario naturale, quasi scontato, forse incolmabile tra i due mondi.

Raccontare la complessità del digitale è la sfida che ha voluto raccogliere Gianluca Sgueo quando ha iniziato a scrivere “Il divario. I servizi pubblici digitali tra aspettative e realtà”, pubblicato a fine marzo (Egea).

«Oggi i servizi e i prodotti di uso commerciale sono quelli che definiscono lo standard della tecnologia agli occhi dei cittadini. Un esempio valido potrebbe essere il cellulare: un nuovo smartphone non ha bisogno di grandi conoscenze e studi per essere usato, non ha un vero manuale utente, forse ha un foglietto. Bene, questa semplicità, unità all’efficienza e alla qualità del prodotto, viene data per scontata in tutte le cose tecnologiche, ma non può certamente essere pareggiata da un servizio pubblico», dice Sgueo, docente presso l’Ecole d’Affaires Publiques di Sciences Po e membro del Centre of Digitalisation, Democracy and Innovation della Brussels School of Governance.

Il servizio pubblico fa passi avanti anno dopo anno, non è certo statico. Solo che non può tenere il ritmo del mondo commerciale: è destinato a inseguire nella catena dello sviluppo. «Abbiamo visto dei passi avanti, in Italia, con il Green Pass: dobbiamo pensare alla complessità dell’app Io, che è frutto di un rapporto intricato tra diversi servizi, poi a noi arriva come un’operazione semplice da attivare sul nostro telefono», dice l’autore. Ma non può bastare: il pubblico non ha di certo raggiunto gli standard del settore privato.

«È un problema non tanto dei progetti di transizione digitale che stiamo realizzando o non realizzando a livello pubblico. È che la complessità a cui va incontro un servizio digitale pubblico. Un sito della pubblica amministrazione, ad esempio, deve essere accessibile agli ipovedenti. Questo vuol dire introdurre delle complicazioni, in termini di script e di design, che un’azienda privata può chiaramente decidere di trascurare: l’azienda può decidere di non avere quelle persone nel suo target. Quindi lo standard di semplicità tecnologica del settore privato è molto distante da quella dello Stato. Non è tanto un discorso di carenza di conoscenze e tecnologia, che magari in Italia comunque c’è, ma è un problema di complessità da comprendere e rispettare», dice Sgueo.

Le innovazioni della tecnologia commerciale sono rapidissime, sempre sorprendenti, spesso con un grande valore aggiunto rispetto alla tecnologia che vanno a sostituire. È per questo che abbiamo anche enormi aspettative. Aspettative che però, se non si comprende il divario che c’è rispetto al settore pubblico, finiranno per generare insoddisfazione tra i cittadini.

Nell’era del tutto e subito pretendiamo che la realtà intorno a noi sia in grado di soddisfare le nostre necessità in tempo reale. Ma non solo: vogliamo servizi semplici, a prova di idiota. Esigiamo che siano costruiti su misura per le nostre esigenze oltre che – naturalmente – gratuiti. Rapiti da una retorica trasversale a politica, media e istituzioni, che celebra il fare subito, in modo semplice e a tutti i costi, siamo vittime di un’insoddisfazione costante nei confronti di qualsiasi servizio non si adegui a questi standard. E lo Stato – secondo la vulgata comune inefficiente, elefantiaco, involuto e complesso – rappresenta in quest’ottica un bersaglio perfetto.

«Il divario è prima di tutto percettivo, ma non sembra che si stia facendo granché per spiegare le differenze e cancellare i bias da parte dei cittadini», dice Sgueo.

Per cambiare questa percezione c’è bisogno di proporre un cambio radicale di mentalità: Sgueo dice perché bisogna difendere la complessità. «Difendere la complessità vuol dire abituarsi a convivere, con decisioni pubbliche, strutture amministrative, rapporto più umano con le strutture. Trasmettere alle persone l’idea che una macchina pubblica, un governo, amministrazione locale, deve gestire aspetti – sintetizzabili nel termine complessità – che non possono essere ignorati. Una difesa che poi va a vantaggio degli utenti, non è la difesa di un privilegio. Se sapremo evitare di demonizzare le molte complessità delle persone, delle decisioni pubbliche e delle strutture amministrative, recupereremo un rapporto umano e più gratificante con lo Stato digitale del presente e del futuro».

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