Diario del lettore #42
Sono nato di bosco e ligure di mare e del levante: la poesia di Camillo Sbarbaro mi corrisponde fin da giovane lettore: come pure la predilezione per lo stare discosto. Così la pubblicazione del Meridiano delle opere del poeta e prosatore ligure è, oltre che un auspicato riconoscimento, acquisto di lettura e tempo ritrovato. Leggere Sbarbaro ai vent’anni e in tandem con Dino Campana, in quella Liguria a cui approdo ogni volta con gioia, è un gran bel viatico alla vita.
Il Meridiano nasce dalle cure di Giampiero Costa, autore anche della Cronologia (una delle ragioni del valore dei numeri della collana), come di consueto aggiornata agli ultimi contributi. Costa precisa che il volume non costituisce una edizione critica delle opere di Sbarbaro, nonostante l’impianto «di natura eminentemente filologica»: pure è articolato in modo da offrire al lettore «le indicazioni utili a ricostruire nel dettaglio gli aspetti peculiari dell’opera» di S., riconosciuto come uno degli autori più rappresentativi del nostro Novecento, e – ed è un passaggio molto significativo – «la cui indole e il cui animo hanno fortemente condizionato la compagine testuale della sua attività letteraria». Insomma, Sbarbaro personaggio-uomo, per riprendere la nota espressione di Giacomo Debenedetti passata a proverbio. Completano il corredo di apparati le Notizie e note sui testi, sempre opera di Giampiero Costa. Cappello introduttivo, un basco blu messo sulle ventitré, è il saggio di Enrico Testa: L’ombrello di Sbarbaro, di cui vale parlare alla fine e a parte.
Il personaggio-uomo Camillo Sbarbaro, dunque – e prima di parlare del poeta e prosatore d’eccezione. Bisogna innanzitutto mettere da parte le due etichette di mano di Montale: Sbarbaro «estroso fanciullo» e «storico / di cupidige e di brividi»: memorabili clausole di stile consumate dall’uso e ormai passate a luogo comune, non inducono pensiero critico. Non convince neppure lo schiacciamento dello scrittore come figura della “quotidiana decenza”, eremita laico e ligustico ritratto in una tavola laterale del polittico con Montale al centro e assiso. Serve ripartire dal ritratto lasciato dall’amico e poeta Angelo Barile: «egli [Sbarbaro] che è l’uomo più svincolato del mondo è stato di un’esemplare osservanza». Dove la parola-chiave è osservanza: ma di quale fede o credo? Nessuna, se non quella della sacertà della natura e le sue forme: e tra queste stanno uomini e donne, i miracoli che dalla moltitudine spiccano e fanno il vero; e quella della fedeltà alle parole e il loro disporsi in poesia e prosa, come i licheni in un erbario e come quelli legati alla vita. Le parole disposte in versi e in prosa sono «l’unica gioia che valga», dice Sbarbaro una prima volta; e poi, diciassette anni dopo, «non abbiamo / altra felicità che di parole»; e sarà per necessità e di buona lena traduttore di classici greci e francesi. (Servirebbe, eccome, un saggio sulle traduzioni di Sbarbaro e le sue predilezioni). È da questa osservanza, intransigente fino allo sgarbo, per la religione della Natura e le parole che prende figura d’eccezione l’uomo e il poeta.
Sbarbaro costituisce con Dino Campana e Clemente Rebora la trinità di poeti che tra il 1913 e il 1914 aprono la strada a una nuova stagione della poesia italiana. (Nel 1916, Ungaretti con Il porto sepolto sposterà l’attenzione: è un’altra storia e ancora da raccontare, nelle sue articolazioni). Pure è Pianissimo, il capolavoro lirico di Sbarbaro, che appare oggi più che mai il libro più ricco di conseguenze e felici – e non mi riferisco solo all’influenza sulla poesia di Eugenio Montale. Per dirla con Pier Vincenzo Mengaldo: «Primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’eloquenza tradizionale, senza l’aria di volerlo fare»: questo è stato e rimane Pianissimo, uno dei libri rappresentativi del Novecento italiano e tra i primissimi. La lirica d’apertura dice la poetica di Sbarbaro e il primo compimento: l’esortazione al silenzio alla propria anima («stanca di godere e di soffrire«) muta, anzi, «ammutolita»; il camminare in sua compagnia «come sonnambuli» – e non può non venire alla mente la trilogia romanzesca di Hermann Broch, 1933; e il finale, che si può solo citare: «E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è. / La vicenda di gioja e di dolore / non ci tocca. Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto. // Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso». Insieme alla tragica xilografia del viandante campaniano, l’alter ego lirico di Sbarbaro è la prima figura italiana dell’uomo novecentesco: un uomo che cammina per la città, l’anima ammutolita e come un sonnambulo: il mondo ormai un deserto, dove “tutto è quello che è”, di un’evidenza che vien da dire minerale. Terra desolata e teatro dell’ansia. (Aggiungo ed è sintomo primario della malattia novecentesca, lo sdoppiamento: “Perché a me par, vivendo questa mia / povera vita, un’altra rasentarne / come nel sonno, e che quel sonno sia / la mia vita presente”). Il poeta attraversa la vita come un sonnambulo all’erta, gli occhi aperti all’evidenza delle cose e solo a quelle: il tono basso e dimesso e la pronuncia limpida sono quelle del monologo in versi di un passeggiatore solitario, senza fantasticherie a far teatro. La lingua è il vero tesoro: piana, conversevole nel silenzio sonnambulico e – ed è il tratto decisivo – costrutta e solida di sostantivi (“intensamente sostantivale”, la dice Mengaldo) a dire l’evidenza delle cose: alberi, case, donne.
Sarà Giorgio Caproni, in un saggio apparso nel 1956 su La Fiera Letteraria, a dire bene la singolarità del metro che regge la poesia di Sbarbaro: «un endecasillabo dinoccolato, quasi in ciabatte ma per nulla crepuscolare (…) talmente inimitabile da far cascar le braccia a chiunque tenti (assumendo subito il tono nasale) di fargli il verso»: è l’omaggio di un grande poeta, che non esitava a dichiarare di preferire Sbarbaro a Montale e può essere considerato della medesima famiglia spirituale dell’autore di Pianissimo. Caproni scriveva di una «corrente ligustica» della poesia italiana, una linea Boine-Sbarbaro-Montale, rifiutata da quest’ultimo con qualche motivo e molta fretta. Sbarbaro era presenza ingombrante.
L’altro capolavoro, e minore, di Sbarbaro è il libro di prose Trucioli, pubblicato nel 1920 – ci sarà poi un’altra edizione accresciuta, nel 1948: ma, come per Pianissimo vale la prima e a buona ragione. Il libro non è all’altezza di Pianissimo, per valore letterario: pure non di molto e così notevole: e guadagna nel tempo, tanto da far tornare a pensare a Gian Luigi Beccaria, che dice di «una meravigliosa prosa lirica». L’alter ego di Sbarbaro è qui aperto al feriale letterario, dice i luoghi e Genova per nome e così le persone e gli amici: non si dimenticano gli uni e alcune delle altre ma sono i luoghi a costituire una geografia letteraria genovese, molto contrastata in puro splendore. Giorgio Caproni ha fissato per osmosi quella geografia sbarbariana che è un autoritratto del poeta: e sono tra le migliori pagine di prosa del livornese. (Memorabile la panoramica dal Righi, dove, arrivati dopo «il buio maieutico d’un tunnel», si apre «il panorama più allegorico, e più veritiero della sua (della nostra) anima: il panorama d’una città spaccata in due fra la luce e l’ombra» – e chi ha vissuto Genova e sa e ama quel suo essere signua e bagascia insieme, ogni volta torna a ritrovarla). È con Sbarbaro, che Genova diventa luogo della letteratura.
Non prose d’arte né vociani frammenti, come pretendeva Gianfranco Contini, e differenti per registro, le prose liriche di Trucioli sono sostenute dal tono comune: il tono di Pianissimo, il tono del vagabondo visionario: non il visionario romantico e così gotico ma affatto nuovo, novecentesco: l’outsider, per estraneità al congegno che tutto muove e orrore della vita meccanica. Vale ripeterlo: è affatto nuova la figura del visionario delle umili cose: l’uomo capace di meraviglia per «i trivii e i budelli», le piazzette cupe. («Unico atto d’amore possibile: condurre a spasso la mia muta meraviglia. / (Non sanno i cocchieri che mi offrono i loro servigi / che fermo alla cantonata / sto consumando le mie nozze con la città)». Ritratti e riflessioni, narrazioni brevi, quadri di natura trasfigurata, liriche in verso libero: tutti concorrono a un libro unitario e gemello di Pianissimo. (Giampiero Costa rileva in nota come l’ultima poesia della raccolta trova naturale prosecuzione, «per esplicita conferma dello stesso Sbarbaro», nel “truciolo-manifesto” intitolato La vite, posto in apertura della raccolta di prose). Tutto per via di sguardo, di visione: l’alter ego dell’autore fissa gli elementi del dramma della separazione tra vita e volontà, il pietrificarsi di quest’ultima, che si rivolge in elogio dell’anonimato e desiderio di allontanarsi («Non avere faccia né nome fra gli uomini / ma vedere l’alba nascere sulle altre parti del mondo!») e auspicio di metamorfosi («Ormai, se qualcuno invidio, è l’albero (…) Essere un albero, un comune albero»). Verrà il tempo di Spotorno: la consolazione degli alberi, l’«aria schietta celestina» e il mare. Tanto basta.
Bisogna dire del saggio introduttivo. Lo dico subito: Enrico Testa non è un saggista memorabile, un grande interprete: manca di recitazione: non è un comédien, solo un acteur, per dirla col supremo Diderot. La sua prosa che vorrebbe spigliata sente del laboratorio, con qualche tocco di verve divulgativa: non incide e non trascina. Pazienza: non tutti possono essere Cesare Garboli: e molti sono gli Asor Rosa. Quel che è sorprendente è la carenza di una forma di inquadramento storico- letterario dell’opera di Sbarbaro: una prospettiva critica. Il saggio si risolve, dopo un primo capitolo dedicato al tentativo di dar figura all’autore, in una serie di letture puntuali per competenza dei testi, più un capitolo conclusivo sulla fortuna della poesia di Sbarbaro tra i poeti del dopoguerra e oltre; e tutto questo per un autore tra i più importanti di un periodo decisivo della nostra letteratura. Dov’è la Storia? Dispiace dirlo: è un’occasione mancata, ed era importante.
Non importa: il Meridiano di Camillo Sbarbaro è un libro da avere. Raccoglie tutta l’opera di un poeta tra i più rappresentativi del Novecento e prosatore notevole; più una serie di apparati che sono non soltanto un sussidio ma tesoro di notizie e rimandi da seguire – e non solo vale la pena: è un racconto che offre sorprese. Leggere Sbarbaro oggi è tornare alla nostra bella lingua e intelligente, intendere come un artista del disporre parole ha vissuto e rappresentato la malattia che è stato il Novecento, la seconda Modernità; e comprendere che si deve risalire oltre. È ormai tempo di farlo – e serve guardare «con asciutti occhi».