Per alcuni sarebbe un’ennesima riprova d’ininterrotto dialogo della Chiesa di Roma col patriarcato di Mosca, e di rapporti null’affatto incrinati tra le due Santità, che pur si sarebbero dovute riabbracciare in giugno a Gerusalemme – il rinvio sine die del secondo incontro, dopo quello del 2016 in una sala dell’aeroporto di L’Avana, avrebbe infatti rischiato di generare «molta confusione», come ha detto Papa Francesco sollecito nel trasmettere a Kirill una breve lettera di auguri in occasione della Pasqua che le Chiese ortodosse hanno celebrato il 24 aprile secondo il computo del Calendario giuliano. Una lettura, questa, che già si dava due giorni fa, sia pur con ulteriori e diversificate considerazioni di merito, col diffondersi della notizia della missiva papale.
Eppure, il fatto che a pubblicarne domenica il testo fosse stata per prima Mosca, e solo l’indomani Oltretevere con ampi passaggi della stessa, avrebbe dovuto indurre a maggiore cautela valutativa e a un ridimensionamento della portata di tali auguri. Auguri che, come da prassi oramai consolidata, sono rivolti annualmente in occasione della Pasqua a ogni patriarca, cui sono stati espressi, anche questa volta, con parole uguali per tutti. Insomma, nessuna novità né tantomeno unicità nella lettera a Kirill, a eccezione della più ampia riformulazione del quarto capoverso riguardante l’offensiva russa in Ucraina, che così suona: «Possa lo Spirito Santo trasformare i nostri cuori e renderci veri operatori di pace, specialmente per l’Ucraina dilaniata dalla guerra, affinché il grande passaggio pasquale dalla morte alla nuova vita in Cristo diventi quanto prima una realtà per il popolo ucraino, che anela a una nuova alba che porrà fine all’oscurità della guerra».
Parole inequivocabili quelle di Francesco, che sono scivolate addosso a Kirill, intento piuttosto – o chi per lui dal suo entourage – a surrettiziamente presentarsi quale interlocutore privilegiato del vescovo di Roma e degno di un credito che non ha mai pienamente avuto presso i suoi omologhi e che ha pressoché perso del tutto con il servile sostegno all’”operazione speciale” della Federazione Russa in Ucraina. D’altra parte, nessuno degli altri patriarchi s’è sognato di dar notizia e, meno che mai, far pubblicare il benaugurante scritto bergogliano, per giunta considerato di routine.
Un’operazione, dunque, autopromozionale e nulla più da parte di Kirill, che già lunedì ha fatto carta straccia dell’appello di Francesco con l’omelia pronunciata nella cattedrale della Dormizione: una vera e propria laus belli fondata sulla solita tesi della “Santa Russia”, che il patriarca moscovita aveva ancora una volta esplicitato, il 27 febbraio scorso, nei termini di unica terra composta da Bielorussia, Russia e Ucraina. A essere questa volta svolta scomodato Ivan III, che «dopo aver fatto molto per unire tutte le terre intorno a Mosca, decise che Mosca doveva diventare la capitale del grande stato» e pose fine a «l’invasione degli stranieri, il conflitto civile, la confusione dei pensieri, la perdita dell’identità nazionale». Da qui il parallelismo coi presenti tempi, nei quali «noi, come popolo, ci troviamo di fronte a molti problemi associati all’aggravarsi della situazione intorno al nostro Paese». Necessario, dunque, chiedere al Signore non solo «di preservare la pace». Ma anche «di rafforzare la nostra Patria e di unire tutta la Russia. Una tale preghiera dovrebbe soprattutto risuonare in queste mura storiche. Siamo nel tempio, che è un santuario nazionale e allo stesso tempo un tempio commemorativo, creato come segno dell’unificazione di tutte le terre russe».
In un crescendo di toni, caratterizzato dall’impiego di tutto l’armamentario lessicale bellicistico e dalla legittimazione del trionfo militare, che non è solo «fisico» e non è «solo vittoria dell’arma con cui il soldato affronta il nemico. Ma è sempre una vittoria dello spirito», si tocca poi il trito argomento dei «nuovi pseudovalori. Ma dobbiamo preservare la nostra, se volete, vocazione speciale: preservare la fede ortodossa, preservare l’unità del nostro popolo, non soccombere a nessuna tentazione e promessa».
Poi il passaggio più sconcertante: «I nostri devoti eroici antenati, compresi coloro che costruirono questa cattedrale, avevano ben capito tutto ciò. E, quindi, le cattedrali furono edificate come fortezze, perché si rendevano conto che, a un certo punto, ci si sarebbe dovuti difendere dietro le loro mura. Cosa, questa, che è accaduta più volte nella storia della nostra Patria. Basti ricordare l’eroica difesa di Smolensk, quando il nemico passò attraverso le mura di cinta e rimase solo la cattedrale come ultima roccaforte e rifugio per i difensori della città. E non volevano cedere la cattedrale: il tempio fu fatto saltare in aria e sepolto sotto gli archi dei suoi difensori, che rimasero imbattuti. Che tutti questi meravigliosi esempi eroici ci ispirino oggi a difendere la Patria, a difendere la nostra vera indipendenza dai potenti centri di potere che esistono attualmente sulla terra. Che il Signore ci custodisca nella vera libertà». Quel Signore, che invocato subito dopo perché «custodisca il nostro esercito, le nostre autorità e tutti coloro da cui oggi dipende soprattutto la difesa della nostra Patria», è nuovamente protagonista nella conclusione del sermone. Non già tuttavia come Dio della pace o amorevole Padre comune, i cui figli in Ucraina patiscono morte, miseria, distruzione (a essi Kirill non riserva neppure una parola). Ma come il Signore e Padre del cielo, cui ci si rivolge perché «la sua misericordia […] si estenda sulla nostra terra, sulla nostra Patria, come si è estesa nella sua storia millenaria, soprattutto nei momenti più pericolosi e critici di essa. Possa il Signore custodire la nostra terra, il nostro popolo, la nostra Chiesa, le autorità e l’esercito per molti e buoni anni!».
Non meraviglia pertanto che il clero della Chiesa ortodossa russa mostri sempre più insofferenza per un patriarca che ha scambiato il messaggio evangelico con proclami bellicistici. E non è solo questione di metropoliti che non ne citano più il nome nelle divine liturgie o di aperte condanne della guerra fratricida, come quella avanzata agli inizi di marzo da 233 sacerdoti e diaconi. Ma di aperta ridicolizzazione e derisione di Sua Santità Kirill I, al punto che in ambiti seminariali s’è coniato il nuovo termine verbale cirillare (кириллить), per indicare un chiacchierio pio e allo stesso tempo del tutto irresponsabile, in cui il religioso e il politico sono strettamente intrecciati.
Secondo Sergej Chapnin «è esattamente ciò che vediamo nei sermoni del patriarca Kirill». Del quale il teologo, giornalista e scrittore moscovita ha una conoscenza diretta e difficilmente eguagliabile, essendo stato dal 2009 al 2015 direttore del Giornale del Patriarcato di Mosca (Журнала Московской Патриархии) nonché segretario della Commissione della Presenza interconciliare per i Rapporti tra Chiesa, Stato e Società. Incarichi che, alla pari di innumerevoli altri, erano stati concessi a Chapnin su disposizione di Kirill, estimatore delle sue competenze e capacitò. Salvo, però, a metterlo alla porta nel 2015 con l’intensificarsi di posizioni critiche sullo stato attuale della Chiesa ortodossa russa da parte del brillante e indipendente pensatore.