L’epopea dei dirittiLa legge 164, 40 anni fa, diede dignità alle persone trans e ci mise all’avanguardia

Ai tempi fu una conquista, ottenuta grazie all’impegno costante e profondo di parte della società civile e della politica. Per paradosso, oggi un atto simile sarebbe più difficile

Cecilia Fabiano/ LaPresse

Con una legge, la 164, l’Italia s’attestava quarant’anni fa su posizioni d’avanguardia in tema di diritti civili. Promulgata a Ventimiglia il 14 aprile 1982 dal presidente Sandro Pertini e pubblicata in Gazzetta ufficiale il 19 successivo, il provvedimento recante Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso riconosceva alle persone trans una dignità a lungo misconosciuta e poneva fine a un annoso calvario giudiziario per le stesse. Ripercorrendone oggi l’iter, si ha la fondata impressione che raramente una disposizione, come in questo caso, abbia acceso gli animi e alimentato un serrato dibattito dentro e fuori dal Parlamento.

Potrebbe suonare strano, eppure la 164 prende l’avvio da un’iniziativa dei militanti del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) Enzo Cucco ed Enzo Francone, che nell’ottobre del 1979 scrivono un progetto di legge a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 12 luglio precedente. Con tale decisione, il cui contenuto si sarebbe conosciuto solo in agosto con il relativo deposito e pubblicazione, la Consulta sembrava infatti precludere ogni tentativo di cambio legale del nome a persone trans.

A offrire interessanti particolari al riguardo è proprio Enzo Cucco, che ci spiega come «il gruppo torinese fosse molto attento a tale situazione, il cui evolversi seguivamo da tempo. La sentenza 98/1979 era infatti il finale di battaglie giudiziarie, caratterizzate da pronunce di giudici di primo livello, Corti d’appello, Cassazione. Insomma, la storia di sempre. A Torino era inoltre già attivo da alcuni anni un gruppo di persone transessuali. Si trattava del Collettivo Travestiti Radicali secondo il termine allora in uso. Scrivemmo anche un Manuale di autodifesa del travestito, perché ragazze e ragazzi che si prostituivano potessero avere rapide informazioni su come agire in caso di arresto, perquisizione, processo. Ma anche, per essere precisi, in caso di botte da parte di agenti delle forze dell’ordine».

Sottolineando i profondi legami tra il Fuori! e il partito di Pannella, lo storico attivista, che ha istituito la Fondazione Sandro Penna ed è stato presidente dell’associazione Certi Diritti, aggiunge: «Il compianto Enzo Francone era all’epoca segretario regionale dei Radicali. Prendemmo quindi subito contatto col gruppo parlamentare, per discutere sul da farsi. All’inizio il referente fu Mauro Mellini, cui subentrò Franco De Cataldo. Con lui, persona competente e intelligente, avemmo inizialmente un accesso dibattito. Io ed Enzo avevamo infatti presentato un articolato di legge, che toccava tutti i diritti delle persone trans. Ma De Cataldo, che aveva annusato l’aria e conosceva bene il Parlamento, si oppose fermamente, facendo notare che bisognava intervenire sul Codice civile e garantire che il cambio anagrafico sui documenti avvenisse per sentenza del giudice. Era quello l’intoppo giuridico. E aveva ragione».

Incentrata infatti sulla sostituzione dell’articolo 454 del Codice civile, la proposta di legge a prima firma Francesco Antonio De Cataldo viene presentata il 27 febbraio 1980 alla Camera dei deputati. Ma rischia di cadere nel dimenticatoio. Basti pensare che, dopo l’assegnazione, il 2 aprile successivo, alla Commissione Giustizia in sede referente, si sarebbe dovuto attendere il 18 marzo 1981 per l’inizio dell’esame.

Saranno il coraggio e la determinazione di attiviste trans, che nella primavera del 1980 avevano costituito il Movimento Italiano Transessuale o Mit – dal 2017 l’acronimo è reso con Movimento Identità Trans – a essere risolutivi per lo sblocco dello stallo, il miglioramento del testo normativo e la definitiva approvazione. A dare l’avvio al tutto è la catanese Pina Bonanno, che, su consiglio dell’artista Marzia Siclari, scrive a Marco Pannella per interessarlo dei diritti delle persone trans. Apprende così che è stata presentata una proposta di legge e si reca a Roma per incontrare De Cataldo.

«Il deputato – racconta Pina a Linkiesta – fu molto disponibile. Ma mi disse che spettava a noi muoverci, organizzarci, farci sentire perché la legge fosse discussa e approvata. Tornata a Milano, dove all’epoca abitavo, ne parlai con varie amiche, che mi diedero inizialmente della pazza. Cominciammo a incontrarci e a discutere. Il progetto fu subito condiviso da Paola Astuni, Roberta Franciolini, che era a Torino, e Gianna Parenti di Firenze. Poi, in un secondo momento, si aggiunsero Roberta Ferranti di Roma e tante altre. In una riunione all’Eur costituimmo il Mit». Il neonato movimento si fa subito conoscere con gesti eclatanti a Milano. Il più celebre è inscenato il 4 luglio nella piscina comunale di piazzale Lotto, quando un centinaio di donne trans in bikini, togliendosi improvvisamente il reggiseno, muovono un chiaro j’accuse contro la «paradossale legislazione – così Paola Astuni al XXIV Congresso del Partito Radicale del 2 novembre 1980 – secondo cui i transessuali sono considerati a tutti gli effetti anagrafici uomini. L’essere rimasti con gli slip, appunto come degli uomini, è stato l’atto che ha provato l’inadeguatezza di tale disposizione».

Il 23 ottobre, a Villa Reale, Pina Bonanno, in tailleur di broccato nero e garofano verde all’occhiello, dà invece vita con la radicale Simona Viola, di bianco vestita, a «una grossa provocazione. Ci presentammo davanti all’assessore liberale Roberto Savasta per essere sposate. I nostri documenti erano in regola: io con le carte da uomo, Simona con quelle da donna. Quando siamo state davanti all’assessore, tra lo sbalordimento delle altre coppie, alla domanda rituale dell’ufficiale di stato civile io risposi: Sono qui per protestare contro lo Stato italiano che non mi permette di sposare, come donna, l’uomo che amo. L’assessore Savasta, con molto autocontrollo, disse: Non posso che prendere atto delle ragioni di questa protesta e pertanto interrompo la cerimonia augurando che il Parlamento voglia al più presto considerare il problema giuridico del transessualismo che interessa tanti cittadini italiani».

Ed è proprio per sollecitare il Parlamento che il 31 ottobre si tiene la prima manifestazione nazionale, partita dalla sede romana del Partito Radicale in piazza di Torre Argentina e arrivata a Montecitorio. Pina Bonanno e una delegazione del Mit hanno modo d’incontrare i deputati Silvano Labriola (Psi), Flavio Colonna (Pci), Valerio Zanone (Pli), ma soprattutto la presidente della Camera Nilde Iotti. Una seconda protesta ha luogo il 10 marzo davanti a Montecitorio, cui segue il colloquio tra alcune attiviste, sempre guidate da Pina Bonanno, e i vicepresidenti della Commissione Giustizia, Gianfranco Sabbatini (Dc) e Maria Teresa Granati Caruso (Pci).

Col passar del tempo una tale azione di pressing su esponenti dei vari gruppi parlamentari dà risultati sempre più concreti. Accogliendo quanto concordato dalla capogruppo e significato dal socialista Luigi Dino Felisetti, che guida la Commissione, la presidente Iotti assegna la proposta di legge al medesimo organismo in sede legislativa. Il che vuol dire sottrarre del tutto il provvedimento all’intervento dell’Aula. Dopo due discussioni si giunge così all’approvazione in prima lettura il 2 ottobre 1981.

Lo ricorda bene Angela Bottari, all’epoca deputata del Pci e componente della Commissione Giustizia, per la quale «è stato merito del Mit e, in primo luogo di Pina Bonanno, che è riuscita a convincere tutti i gruppi parlamentari. Certo ci siamo mossi con la massima accortezza: abbiamo voluto la discussione in Commissione perché non ci fosse dibattito in Aula. Cosa che probabilmente avrebbe fatto naufragare l’approvazione. Ci fu al riguardo uno straordinario lavoro unitario soprattutto tra radicali, comunisti, democristiani e socialisti».

Ma è soltanto il primo step. Difficoltà sorgono col passaggio al Senato, dove la Democrazia cristiana sembra mettersi di traverso presentando, il 5 novembre, un suo ddl a prima firma Giorgio Renzo Rosi. Almeno questa è l’interpretazione che al momento forniscono soprattutto il Fuori! e i Radicali. Il Mit non resta a guardare e dà il via alle manifestazioni davanti a Palazzo Madama.

Memorabile è quella del 10 novembre, mentre è in corso la visita di Indira Gandhi al presidente del Senato Amintore Fanfani. «La polizia – a dirlo al nostro giornale è sempre Pina Bonanno – non voleva che stazionassimo lì. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di muoverci. A quel punto iniziarono a caricarci. Noi reagimmo. Entrammo in un bar di fronte e iniziammo a scagliare di tutto, compresi i tavolini, contro i poliziotti. Quante botte che prendemmo. Ci caricarono sui cellulari e ci portarono in questura. Ma la sera eravamo libere. Il giorno dopo organizzammo una nuova manifestazione in piazza del Pantheon. Avevo chiamato Marta Marzotto, che conoscevo bene, e lei venne con tantissime persone. A un certo punto si vide lo stesso poliziotto che ci aveva detto il giorno prima di sgomberare e aveva iniziato a caricarci. Mi fece la battuta: Eh, Bonanno, sei venuta con la scorta oggi? E io per tutta risposta: Manganellaci ora se hai il coraggio».

Modificato in testo unificato con quello presentato dai senatori democristiani Rosi, Di Lembo, Bausi, De Giuseppe, Fracassi, Fimognari e strutturato alla fine in sette articoli, il provvedimento è approvato dalla Commissione Giustizia del Senato in sede deliberante (equivalente della legislativa alla Camera) il 16 febbraio 1982. Il sì definitivo, dopo il rinvio a Montecitorio, ha luogo il 1 aprile da parte della relativa Commissione con ventiquattro voti su ventiquattro. A votare a favore anche i missini con tanto d’intervento previo del deputato Vincenzo Trantino che così conclude: «Ritengo che la proposta di legge in esame debba essere approvata con la massima urgenza».

Anche l’approvazione in terza lettura era stata preceduta da manifestazioni del Mit davanti a Montecitorio e in varie città italiane. Ma anche da colloqui con parlamentari. «Continuai fino alla fine – racconta sempre Pina – a incontrare rappresentanti dei vari partiti. Un giorno fui ricevuta insieme con altre da Flaminio Piccoli, segretario della Dc, che mi disse: “Non ho nessuna difficoltà al cambio del nome sui documenti. Ma bisogna aggiungere la sigla Ts”. Voleva insomma che ci fosse un chiaro riferimento al fatto che fossimo trans. Presi le pile di carte che aveva sulla scrivania e gliele scaraventai in faccia. Un altro brutto ricordo lo ho di Tina Anselmi. Una volta la incontrai in aeroporto e le chiesi di sostenere la nostra causa. Lei mi rispose con freddezza: Lasciamo stare il mondo com’è». Al contrario, continua la fondatrice del Mit, «chi ci sostenne della Democrazia cristiana fu Maria Pia Garavaglia: disponibilissima. Ma il più grande aiuto lo avemmo da Giglia Tedesco e Angela Maria Bottari del Pci: furono straordinarie. Grazie al loro impegno e a quello dei radicali abbiamo portato a casa la legge. Per non parlare poi di don Luigi Ciotti, che ha pure benedetto le mie nozze, e di Marta Marzotto: il suo era il salotto dei politici e lei ha molto influito su Fanfani».

Il ricordo dell’approvazione definitiva è ben vivo proprio nella memoria di Angela Bottari, che confessa al nostro giornale: «Ancora oggi il ripensare all’approvazione della legge 164 mi procura emozione. Come mi emozionano le immagini indelebili di Montecitorio, letteralmente presa d’assalto dalle transessuali capitanate da Pina: non ci davano tregua e facevano bene, avendo ben capito che l’essere presenti e, direi, l’inseguirci avrebbe portato al risultato sperato». Per l’ex deputata comunista quella «è stata una battaglia davvero significativa. Quando ci penso, ancora mi domando come possa essere accaduto che 40 anni fa il Parlamento si sia dimostrato così moderno, così consapevole di dover rispondere positivamente alle esigenze di una minoranza».

Una riflessione, questa, che trova rispondenza nelle parole di Simona Viola, oggi componente della segreteria di +Europa. «Quel Parlamento di 40 anni fa, dominato da Dc e Pci, si rivelò più scevro di pregiudizi e di opportunismi di quello attuale che, in balia di populismi e ideologismi, non riesce ad agire con riguardo in materia di diritti civili: dal contrasto all’omo-lesbo-bi-transfobia al matrimonio egualitario. Per non parlare poi di questioni come la cannabis o l’eutanasia». Per l’avvocata milanese è inoltre indicativo che «le varie situazioni di guerra contrappongano Stati autoritari, che non a caso minacciano e perseguono le comunità Lgbt+. Quelle minoranze, cioè, che hanno bisogno di noi». Resta indubitabile, conclude Simona Viola, «che il Parlamento è riuscito nel 1982 a licenziare una legge, che forse oggi è un po’ obsoleta ma che, all’avanguardia a quei tempi, continua a rivelarsi giusta ed equilibrata».

Giudizio quanto mai fondato, che solleva la questione di una riforma della 164 come chiesto dal Mit bolognese, a lungo guidato da Porpora Marcasciano, e da varie associazioni trans. A pesare è soprattutto l’interpretazione che, ancora fortemente influenzata da un approccio medico dell’identità di genere quando non patologico, si continua a dare al provvedimento. È un dato di fatto, come già rilevava l’avvocato e giurista Alexander Schuster, che i giudici si rifanno quasi esclusivamente alle consulenze mediche e all’aspetto fisico. D’altra parte, per quanto la 164 sia chiara nel merito, non è un caso che la Corte Costituzionale abbia dovuto chiarire con sentenza 221/2015 come la corretta interpretazione della legge, già modificata nel 2011 con la riforma dei riti processuali, escluda la necessità dell’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso (o, più correttamente, di affermazione genere) per accedere all’iter legale di rettificazione anagrafica.