A 12 giorni dallo scoppio del conflitto russo-ucraino i temi correlati della guerra fratricida e della pace sono i principali intorno a cui s’imperniano le posizioni diversificate delle Chiese e comunità ecclesiali ad intra e ad extra d’un Paese di fatti invaso.
Se delle une e delle altre si parla, non è certamente per mancanza di considerazione verso le altre religioni, i cui rappresentanti, a partire dall’Islam e dall’Ebraismo, hanno parimenti a cuore la risoluzione della crisi. Ma unicamente per il peso specifico che quelle hanno in Ucraina, dove l’83,5% della popolazione, complessivamente dichiaratasi appartenente a un determinato credo (84,1%), è cristiana. Di questa, secondo il sondaggio condotto nel 2020 dal think tank non governativo Razumkov Centre, eccettuata la Repubblica autonoma di Crimea e alcuni distretti del Luhans’k e del Donec’k, la stragrande maggioranza, vale a dire il 62,3%, è ortodossa, mentre il 9,6 è greco-cattolica.
A seguire percentuali minoritarie di altri riti e confessioni, non senza contare l’8,9% di chi si professa semplicemente cristiano. Secondo l’indagine svolta nel giugno 2021 dal KIIS (Kyiv International Institute of Sociology – Київський міжнародний інститут соціології) sarebbero invece addirittura il 73% gli ucraini ortodossi, di cui la maggioranza (58%) membri della Chiesa ortodossa d’Ucraina (UOC), meno della metà (25%) membri della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca (UOC-MP) e il 12% “semplici credenti ortodossi”.
Com’è noto, la UOC, nata il 15 dicembre 2018 attraverso un concilio di unione presieduto dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli a seguito del quale c’è stata una sostanziale fusione della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Kiev capeggiata dall’allora metropolita Filarete e di altra entità ecclesiale anticanonica, è considerata ancora scismatica e non valida sacramentalmente da Mosca. E questo nonostante il riconoscimento ufficiale di Bartolomeo I attraverso il tomos d’autocefalia, da lui firmato il 5 gennaio successivo nella cattedrale di San Giorgio a Istanbul. Pur contrapposte l’una all’altra, le due grandi Chiese ortodosse ucraine sono però da giorni concordi – al di là dei toni, delle motivazioni e delle diverse prospettive dei rispettivi primati Epifanij e Onufriy – nel condannare l’invasione putiniana iniziata il 24 febbraio.
Se scontate sono apparse le invettive del primo, che sabato in un vibrante discorso è tornato a parlare di «tirannia del Cremlino», sotto il cui «giogo [… il popolo ucraino, vissuto per decenni al costo di milioni di persone torturate dalla fame e dalla repressione» non senza una bordata al Patriarcato di Mosca, accusato di alimentare i falsi miti della «Santa Russia» e del «Popolo Trino», non può affatto dirsi lo stesso del secondo, da sempre contrario alla volontà dell’Ucraina di entrare nella Ue ma parimenti convinto dell’integrità territoriale del suo Paese. Ed è proprio la figura del metropolita Onufriy a stagliarsi in tutta la sua dignità e adamantina grandezza da quasi due settimane a questa parte.
Questi, in aperta controtendenza alle posizioni del patriarca di Mosca Kirill I, entusiasta sostenitore di Vladimir Putin e della sua politica espansionistica in Crimea e nell’Ucraina orientale a partire dal 2014, ha subito condannato le «operazioni militari» russe.
«Difendendo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina – così nel discorso del 24 febbraio – ci appelliamo anche al presidente della Russia affinché fermi immediatamente la guerra fratricida. I popoli ucraino e russo sono usciti dal fonte battesimale del Dnepr e la guerra tra questi popoli è una ripetizione del peccato di Caino, che uccise con invidia il proprio fratello. Una simile guerra non ha giustificazione né presso Dio né presso l’uomo».
Su suo mandato quattro giorni dopo il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa ucraina (UOC-MP), dopo aver disposto l’apertura continuata di chiese e monasteri per accogliere rifugiati e feriti, si rivolgeva proprio a «Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia», chiedendogli di «intensificare longanime» le preghiere per il popolo ucraino e d’impegnarsi per la «cessazione dello spargimento di sangue fratricida sul suolo ucraino e di invitare la leadership della Federazione Russa a porre immediatamente fine alle ostilità che minacciano di trasformarsi in una guerra mondiale».
Appelli tutti caduti nel vuoto che non hanno però scoraggiato l’impavido metropolita, che il 4 marzo, dopo una solenne liturgia impetratoria della pace, ha elevato un grido carico di dolore per il suo popolo. Chiedendo a «entrambe le parti, russa e ucraina, di sedersi al tavolo dei negoziati e risolvere tutti i problemi tra noi esistenti, non certamente con l’aiuto della spada. La spada divide, l’amore unisce», si è così rivolto al presidente della Federazione Russa: «Vladimir Vladimirovich, fa’ di tutto per porre fine alla guerra sul suolo ucraino! La guerra non porta bene al popolo. La guerra sparge sangue e il sangue divide le persone. Puoi farlo, e noi crediamo e desideriamo che tu lo faccia. Chiediamo che i giorni di Quaresima siano per noi sereni, affinché possiamo celebrare con gioia la festa luminosa della vita, la festa della Santa Risurrezione di Cristo».
Dal Cremlino ovviamente nessuna risposta né tantomeno dal santo monastero Danilov: il sacro burattino di Putin, contro il quale monta sempre più la protesta al punto tale che molti metropoliti non ne citano più il nome nelle divine liturgie (senza contare la dura e aperta condanna della guerra fratricida da parte di 233 sacerdoti e diaconi della Chiesa ortodossa russa), preferisce tacere sulle politiche sanguinarie dello zar del terzo millennio, trincerandosi dietro a invettive esorcistiche contro «forze esterne oscure e ostili» cui bisogna impedire «di ridere di noi» e alla riproposizione dell’esplosiva tesi della “Santa Russia”, unica terra composta da Bielorussia, Russia e Ucraina.
Non meraviglia pertanto che il 3 marzo, ricevendo nella residenza patriarcale il nunzio apostolico Giovanni D’Aniello, abbia elogiato con quell’untuosa doppiezza, per cui è tanto noto quanto screditato, Papa Francesco.
Quel vescovo di Roma che, incontrato a L’Avana il 12 febbraio 2016 e coprotagonista con lui della firma della Dichiarazione comune, non aveva fino a ieri espresso alcuna parola di aperta condanna dell’invasione russa al punto tale da essere elogiato da Kirill con riferimento alla «posizione saggia e prudente della Santa Sede».
Posizione, che «su tante questioni internazionali corrisponde alla posizione della Chiesa ortodossa russa. È importante che le Chiese cristiane, le nostre Chiese comprese, non diventino, volendo o non volendo, talvolta senza alcuna voglia, partecipanti a quelle complicate e contraddittorie tendenze che sono presenti oggi nell’agenda mondiale».
Fino a ieri, come si diceva, quando all’Angelus Bergoglio, forse consapevole che una tale prudenza potesse alla fine passare come silenzio acquiescente, è intervenuto in maniera inequivocabile sul tema, pur senza usare esplicitamente la parola “invasione” o citare Putin.
«In Ucraina – così Francesco – scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria. Le vittime sono sempre più numerose, così come le persone in fuga, specialmente mamme e bambini. In quel Paese martoriato cresce drammaticamente di ora in ora la necessità di assistenza umanitaria. Rivolgo il mio accorato appello perché si assicurino davvero i corridoi umanitari, e sia garantito e facilitato l’accesso degli aiuti alle zone assediate, per offrire il vitale soccorso ai nostri fratelli e sorelle oppressi dalle bombe e dalla paura».
Nel ringraziare poi «tutti coloro che stanno accogliendo i profughi», ha implorato «che cessino gli attacchi armati e prevalga il negoziato – e prevalga pure il buon senso –. E si torni a rispettare il diritto internazionale!». Non senza un ulteriore affondo a Putin, quando ha menzionato con gratitudine «anche le giornaliste e i giornalisti che per garantire l’informazione mettono a rischio la propria vita. Grazie, fratelli e sorelle, per questo vostro servizio! Un servizio che ci permette di essere vicini al dramma di quella popolazione e ci permette di valutare la crudeltà di una guerra». A differenza proprio di quel Kirill I che sempre ieri, al termine della liturgia della Domenica del Perdono o dei Latticini (che antecede l’inizio della Grande Quaresima), ha pensato bene di collegare quanto succede da otto anni nel Donbas ai perversi disegni di «chi rivendica il potere mondiale» e vuole introdurre nella regione i gay pride o «presunte marce della dignità organizzate per dimostrare che il peccato è una delle varianti del comportamento umano».
Da qui la considerazione apocalittica che «quanto sta accadendo oggi nell’ambito delle relazioni internazionali non ha quindi solo un significato politico» ma è segnale «che siamo entrati in una lotta dal contenuto non fisico, ma metafisico».
Insomma, nulla di nuovo, se non l’ennesima violenza verbale e intemerata omofobica del “vescovo della terza Roma”. Intemerata, in cui il tema della corruzione occidentale dei costumi nella forma massima dell’omosessualità non è nient’altro che una ripresentazione sermonesca dei capisaldi della neoeurasiatismo di Dugin. Cui, come si sa, guardano con ammirata attenzione il cleptocrate del Cremlino e il suo cappellano. Pardon, patriarca!